Fede e politica. Un rapporto da ripensare

Nel settembre del 2019, il Forum di Limena tenne a Marango un convegno su “Fede e politica”. Il Covid ha poi reso impossibile proseguire gli incontri che avevamo in animo di promuovere e la discussione è rimasta in sospeso. Oggi vogliamo riprendere il tema avviando un dibattito di cui intendiamo dar conto attraverso le nostre newsletter.
Lo facciamo inizialmente presentando un testo fattoci pervenire da Luigi Viviani, già relatore a Marango, in cui l’autore espone le proprie idee sul tema anche in una prospettiva futura; abbiamo poi chiesto a tre cattolici impegnati nell’amministrazione locale di dirci qualcosa della loro esperienza.
Sollecitiamo coloro che sono interessati a dialogare su questa tematica ad inviare i loro interventi all’indirizzo: forumdilimena@gmail.com
Ci pare infatti che la questione non possa essere ulteriormente dilazionata. La tradizionale difficoltà manifestata dai cattolici a “pensare politicamente”, che angustiava Lazzati, è oggi diventata qualcosa di più grave. Si è trasformata in una radicale separazione tra l’identità religiosa e la dimensione politica. Si è cristallizzata in uno “scollamento della vita di fede del credente dalla percezione delle sue responsabilità politiche” (Dianich), che è frutto della diffusa inclinazione a espellere la storia dalla vita delle comunità cristiane e a ridurre l’esperienza religiosa a culto, devozione e spiritualismo disincarnato.
La vita recente delle nostre chiese e del nostro modo di essere cristiani è fatta di progressive separazioni. Tutto ciò è andato ben oltre quelle positive autonomie delle realtà terrene di cui il Vaticano II aveva parlato; è divenuto uno scisma nella coscienza del cristiano, uno dei tanti; una frattura che ha permesso a tutte le posizioni politiche, anche quelle xenofobe e autoritarie, di assumere pari dignità nelle scelte dei credenti, che ha creato un popolo di persone politicamente poco attente quando non vittime dell’antipolitica, che ha isolato i pochi ancora impegnati in politica nella solitudine di chi non è riconosciuto e sostenuto dalla propria chiesa.
Nel frattempo la politica prosegue la sua strada: non riesce ad arrestare il declino del nostro Paese; giunge a mettere a rischio la democrazia; soffre di una crescente incapacità di rispondere alle attese che l’idea di sovranità popolare aveva suscitato; assiste impotente all’incremento delle disuguaglianze; subisce il potere delle grandi concentrazioni economiche, finanziarie, digitali. E infine rientra nella chiesa dopo esserne stata cacciata, per condizionarne la vita interna, imponendo l’idea che essa deve restare politicamente afona, fino al punto di criticare con protervia un Papa rivelatosi politicamente non neutro. E nel fare questo scopre che oggi gli stessi ambienti di chiesa sono solcati da fratture interne in cui si manifestano culture difficilmente conciliabili e in alcuni casi nemmeno interessate al confronto.
Alcuni pensano che sia possibile risolvere questo oscuramento del rapporto cattolici e politica con un sussulto della volontà; che esista cioè da qualche parte un tesoro di fede, valori, moralità, disponibilità all’impegno, soggettività politica in standby e che si tratti semplicemente di attivarlo, riversandolo nuovamente nell’arena politica. I cattolici dovrebbero solamente rompere gli indugi e decidere di impegnarsi. Alcuni ne sono così convinti da pensare di farlo ritornando a un partito in cui la loro ispirazione religiosa sia evidente, come anche qualche vescovo è tentato di suggerire; una proposta possibile, legittima, ma problematica, in un contesto di post-cristianità, che meriterebbe di essere discussa anche per altre ragioni.
Come abbiamo cercato di dire nel convegno di Marango, abbiamo l’impressione che si dovrebbe essere più umili, maggiormente consapevoli dei limiti accumulatisi nelle culture politiche del popolo cristiano e, soprattutto, che il problema sia più profondo. Si tratta di ripensare radicalmente il rapporto fede e politica, assumendolo come un aspetto, non l’unico anche se oggi tra i più trascurati, di ciò che comporta la presenza dei cristiani nel mondo.
Naturalmente non si tratta di immaginare un ritorno della chiesa nello spazio politico, ma di ridare alla politica il posto che le spetta nella vita del cristiano, se non altro perché anch’egli è un cittadino. Come dicevamo a Marango, la questione non è di esprimersi direttamente sulle scelte politiche, ma di operare al fine di formare coscienze in grado di esprimere giudizi politici non dimentichi dell’ispirazione evangelica, perché abituate nelle loro chiese a far dialogare il Vangelo con la storia. Non è questione di rimettere in discussione il carattere “autonomo” e personale delle scelte, ma di riconoscere che lo scisma di cui si è detto ha gradualmente atrofizzato nelle comunità cristiane la capacità di sviluppare quel genere di considerazioni morali e culturali che precedono e orientano le sensibilità politiche. Il magistero di Papa Francesco, l’enciclica “Fratelli tutti” in modo particolare, costituisce uno stimolo su cui riflettere per superare questi limiti. La rilegittimazione dell’agire politico vi appare evidente, come è chiara la preoccupazione per i rischi che la radicalizzazione di certi atteggiamenti politici, orientati a far crescere “le ombre di un mondo chiuso”, comportano.
Sorgono numerose domande, molte della quali hanno a che fare con i presupposti di un pensiero capace di entrare in relazione con la dimensione politica dell’esistenza. Come superare l’imbarazzo che si nota ogni volta che la parola “politica” emerge nel corso di un incontro ecclesiale? Che cosa vorrebbe dire oggi riconciliare fede e politica? Da dove iniziare? E anche, per dirlo con franchezza vista l’esperienza del Forum, quanto interessa realmente questo tema alle nostre chiese? Pare necessario innanzitutto ritrovare un pensiero che dapprima legittima l’attenzione per la sfera dell’impegno civile e politico evitando l’attuale imbarazzo e che poi consenta di solcarla in modo efficace, non ideologico, laico, plurale.
Si aprono qui questioni di carattere culturale, educativo e formativo, che investono anche la natura della politica. Non basta dire che i cattolici, e i giovani in particolare, dovrebbero tornare a far politica. Il tema della degradazione della politica, che è all’origine del declino della militanza attiva, deve essere affrontato. Come ripensare le coordinate della politica, il suo senso, come possiamo contribuire a riabilitarla, come ricondurla ad essere generatrice di speranze? Un tema che riguarda tutte le culture politiche, non solo i cristiani.
Questioni che interessano l’azione pastorale delle nostre chiese. C’è qui una problematica propriamente formativa. Le classi dirigenti del nostro Paese manifestano limiti sempre più evidenti. È immaginabile uno sforzo qualificato orientato alla formazione di una nuova classe dirigente che si avvalga dell’esperienza accumulata nelle scuole di formazione sociopolitica, ma che vada oltre i limiti da esse manifestati? E c’è una problematica educativa, che forse viene prima. Perché la questione essenziale è che attualmente le nostre non sono comunità educanti alla politica. Per fare un esempio di una certa importanza, si sostiene che la democrazia non è sistema politico facile da sostenere nel tempo, che essa ha un bisogno assoluto di persone democratiche. In passato gli ambienti di chiesa, alcune associazioni in particolare, svolgevano compiti di educazione alla vita democratica, che anche altri promuovevano (partiti, sindacati, ecc.). Oggi sembra che questo compito non sia più fatto proprio da nessuno. Potrebbe essere da qui che si riparte?
Ci fermiamo qui. Molte di queste domande e altre ancora ce le ponemmo già a Marango nell’autunno del 2019 e può essere utile tornare all’introduzione di allora, che per comodità rendiamo nuovamente disponibile qui.

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