Prospettive fosche per la pace secondo il caporedattore di Haaretz

A cura di Alessandro Castegnaro

Negli Usa e in Europa si discute molto sulle possibilità che le proposte per la pace su cui stanno lavorando il presidente Biden e la diplomazia americana (Sullivan, Blinken, ecc.) siano realistiche. Un commentatore come Thomas Friedman, del New York Times, sembra credervi, ma l’editorialista di Le Monde Elena Sallon non ci crede affatto. La rivista Foreign Affairs è anch’essa scettica e di recente ha sostenuto l’idea che, dato lo scarso peso che gli USA hanno oggi, alla fine saranno gli attori locali a decidere, una tesi sostenuta già in ottobre da Olivier Roy, sociologo francese con esperienze diplomatiche.
Su questo tema ascoltiamo una voce israeliana.*
Prima del 7 ottobre
L’articolo che qui riportiamo è stato pubblicato il 7 febbraio 2024 su Foreign Affairs**. Ne è autore Aluf Benn, caporedattore del quotidiano Haaretz, la nota testata israeliana di orientamento progressista, che la destra integralista sostiene polemicamente essere un “giornale arabo in lingua ebraica”.
Si tratta di una ricostruzione dettagliata e detta con insolita franchezza della recente storia politica di Israele e delle responsabilità di Netanyahu nel condurre il Paese all’attuale situazione di impasse. Può essere utile per chi non ha ancora avuto occasione di farsi una idea sufficientemente accurata e, dato la lunghezza del testo, ha un po’ di tempo a disposizione. Naturalmente il punto di vista è quello di un israeliano progressista e favorevole a trovare un modo di convivenza tra i due popoli in guerra.
Il titolo – L’autodistruzione di Israele – già dice qual è la preoccupazione che fa da sfondo alla sua analisi.
Aluff Benn sottolinea inizialmente quanto sia cambiata l’atteggiamento nei capi del suo paese rispetto ai tempi in cui uomini come Moshe Dayan, pur impegnati militarmente, potevano ancora comprendere le ragioni dei palestinesi.
Netanyahu negli ultimi due decenni era riuscito invece nell’operazione di convincere gli israeliani che fosse possibile prosperare come paese in stile occidentale mettendo da parte i palestinesi. Egli ha lusingato il suo popolo con l’idea di una prosperità senza pace. E per un certo tempo ciò sembrò possibile. Il dibattito su pace e guerra, tradizionalmente un argomento politico cruciale per Israele, era diventato notizia da ultima pagina.
Nel frattempo la linea moderata che per lungo tempo era stata quella condensata nello slogan “terra in cambio di pace” è stata sostituita dalla teoria del “dividere e conquistare”. Netanyahu e i suoi alleati ultraortodossi hanno ideato un progetto per un Israele autocratico e teocratico il cui popolo è dotato di “un diritto esclusivo e inalienabile sull’intera Terra di Israele”, con ciò negando apertamente qualsiasi rivendicazione palestinese sul territorio.
Il governo radicale di Netanyahu aveva suscitato indignazione tra i liberali e i centristi israeliani. Ma anche i critici hanno continuato a ignorare il destino dei territori occupati quando si sono opposti al governo, concentrandosi invece sulle riforme giudiziarie volute da Netanyahu.
Dopo il 7 ottobre
Il 7 ottobre ha cambiato le cose; “è stata la peggiore calamità nella storia di Israele”. Ma -secondo Aluff Benn – cambiare rotta sarà estremamente difficile. Qualunque cosa accada al primo ministro, è improbabile che Israele abbia un dialogo serio finalizzato a raggiungere un accordo con i palestinesi. Come è sempre avvenuto in passato quando ci sono stati attacchi dei palestinesi l’opinione pubblica israeliana nel suo complesso si è spostata a destra***. E ciò potrebbe rendere il 7 ottobre l’inizio di un’epoca oscura nella storia di Israele, caratterizzata da una maggiore e crescente violenza.
Di fatto Israele sta ancora seguendo lo stesso percorso che Netanyahu ha perseguito per anni. La sua identità è ora meno liberale ed egualitaria, più etno-nazionalista e militarista. Prova ne sia lo slogan “Uniti per la Vittoria” che compare in ogni angolo di strada.
Quasi nessun ebreo israeliano pensa oggi a come risolvere pacificamente il conflitto palestinese. La sinistra israeliana è ormai quasi estinta. I partiti centristi sembrano sentirsi a casa nella nuova società militaristica e non vogliono rischiare la loro popolarità sostenendo i negoziati sulla linea di “terra in cambio di pace”. E la destra è più ostile ai palestinesi di quanto lo sia mai stata.
D’altro canto non esiste alcun gruppo o leader palestinese accettato da Israele come lo furono l’Egitto e il suo presidente dopo il 1973.
Forse l’unica idea su cui c’è unità è quella di opporsi a un accordo “terra in cambio di pace”. Dopo il 7 ottobre, la maggior parte degli ebrei israeliani concorda sul fatto che qualsiasi ulteriore cessione di territorio darà ai militanti palestinesi un trampolino di lancio per il prossimo massacro.
*Considerazioni non troppo lontane sono state espresse anche da Davide Assael in un articolo dal titolo “La guerra di Bibi: il conflitto visto da Israele” pubblicato in “Domani” del 13 febbraio 2024. In particolare i due interventi convergono sull’idea che non sia solo Netanyahu il problema. Mentre Assael sottolinea e spiega il senso “di tradimento” che hanno vissuto gli israeliani dopo il 7 di ottobre.
**Foreign Affairs è una rivista americana di relazioni internazionali e politica estera. Venne fondata nel 1922 ed è considerata una delle riviste di politica estera più influenti degli Stati Uniti.
***Cfr. Dahlia Scheindlin, Perché Israele non cambierà. La guerra a Gaza probabilmente rafforzerà l’inclinazione a destra del Paese, in Foreign Affairs, November 29, 2023