“È una follia dover scegliere quali vittime piangere e quali no”

Dalla finestra del suo appartamento a Tel Aviv lo scrittore Etgar Keret vede un Paese «sospeso», molti caffè sono chiusi o aprono a singhiozzo perché il personale è nella riserva, le scuole funzionano parzialmente con le classi a rotazione in smart working come durante il coronavirus, buona parte degli asili sono deserti perché privi di shelter adeguati. L’alba del 7 ottobre ha cambiato il presente degli israeliani, quello dei palestinesi e quello nero di Gaza, distante meno di un’ora di auto eppure lontanissima: ma, sostiene Keret, quel massacro dovrebbe aver dato la sveglia al mondo, prigioniero di schemi ideologici inadeguati a capire l’hic et nunc.
A cinque settimane dal sabato più buio, a che punto della sua Storia è Israele?
«Sarebbe sbagliato guardare a quanto sta accadendo da una prospettiva solo locale. La guerra in Ucraina ha già mostrato come, al di là del contingente, ci sia una dimensione globale che coinvolge Russia, Cina, Stati Uniti, Iran. In Israele avviene la stessa cosa. Il mondo è scosso da cambiamenti rapidissimi rispetto ai quali la nostra concezione ideologica è rimasta indietro. Dopo aver sostenuto per trent’anni la soluzione dei due Stati e aver osteggiato Netanyahu pensando fosse una storia tra noi e loro, ho realizzato in queste settimane che l’attacco del 7 ottobre, illogico per i palestinesi e autodistruttivo per Gaza, era sincronizzato con l’iniziativa saudita e con le contrapposizioni internazionali, come una mossa di scacchi in cui bisogna sacrificare la pedina importante. Il quadro è più grande, il conflitto territoriale si è spostato sul piano della guerra religiosa. Ho ascoltato tante volte le voci degli uomini di Hamas che dai kibbutz massacrati chiamavano casa raccontando quanti ebrei avessero ucciso, non li definivano mai “occupanti” ma “ebrei”. Siamo di fronte a un terremoto senza precedenti. Penso agli arabi-israeliani, il 25% della popolazione israeliana: sono sempre stati contrari alle operazioni militari a Gaza e invece stavolta appoggiano la guerra perché tanti di loro sono stati uccisi il 7 ottobre e vedono Hamas come un nemico, tuttavia vengono guardati con forte sospetto dagli ebrei che non si fidano di loro».
Cosa ha ottenuto entrando a Gaza l’esercito israeliano, che si è spinto dove finora non l’avevamo visto mai?
«Nella memoria collettiva israeliana c’è da sempre lo spettro della penetrazione dell’esercito a Gaza, lo stesso Netanyahu l’ha evocato tante volte come uno scenario funesto che avrebbe portato migliaia di morti tra i soldati e il terrore nelle nostre città. Ma dopo l’enormità del 7 ottobre non c’erano alternative, l’orgoglio dei capi di Hamas per l’orrore commesso ha reso l’intervento popolare. E l’intervento è arrivato, più brutale che mai. E’ servito? Per un verso è un successo, ottimo coordinamento, i combattimenti sul terreno di fatto più “sicuri” per i civili dei bombardamenti aerei. Di contro però si tratta di un successo locale che riguarda appena un terzo di Gaza e in una situazione in cui le forze Hamas sono ancora integre, pronte probabilmente a colpire dal Sud».
Israele sa che il dramma palestinese è inaccettabile per la comunità internazionale, le manifestazioni a sostegno della Palestina si moltiplicano e l’Onu parla ora di rischio carestia per Gaza. Fino a che punto può arrivare la caccia ai leader di Hamas?
«So poco o nulla di strategia militare. So invece cosa sta accadendo sul piano della comunicazione e so che quando le persone affermano di essere pro Israele o pro palestinesi mi deprimo perché capisco che qualsiasi cosa dica resteranno della loro idea. Nelle manifestazioni di questi giorni troppi, da una parte e dall’altra, abusano delle parole “genocidio”, “shoah”. Bibi ha pronunciato più spesso “Hitler” che “kibbutz”. Sono un liberal di sinistra e quando vedo i cosiddetti attivisti pro palestinesi che strappano i manifesti con le foto dei rapiti, tra cui Alex Danzig, sopravvissuto all’Olocausto come mia madre, sto male. Anche tanti israeliani non vogliono vedere i morti di Gaza. È un esercizio di empatia selettiva. La gente è convinta che odiare una parte o l’altra sia attivismo, mentre lo è affrontare i problemi e provare a risolverli. Di fronte ad Hamas che si nasconde tra i pazienti degli ospedali qualcuno s’indigna e altri se la prendono con Israele: io suggerirei piuttosto di allestire ospedali galleggianti su cui evacuare i feriti. Chi vuole aiutare deve capire gli effetti delle proprie parole. Uso da sempre lo slogan “stop a 56 anni di occupazione”, ma sui social oggi si parla di “75 anni”, risalendo al ’48, prima della nascita d’Israele. Siamo a questo? Semplificare è lo scenario peggiore».
I ministri più estremisti del governo israeliano e i coloni evocano ogni giorno l’espulsione dei palestinesi da Gaza. Lo pensano davvero?
«Follia, l’idea che i palestinesi se ne vadano è una fantasia malata. Certo, c’è gente nel governo che vorrebbe rioccupare Gaza come ai tempi di Gush Katif. Ed è tutta colpa di Netanyahu, che, per sopravvivere, si è circondato di partner senza legge. Per questi estremisti religiosi, messianici e razzisti il 7 ottobre è stato quasi un segno di Dio, perché molte delle vittime erano pacifisti, gente che aiutava Gaza, gente che non abitava al fuori dei confini del ’67 ma dentro. Un colono che evoca la bomba atomica è un odiatore capace di disinteressarsi degli ostaggi perché sono “amici degli arabi”. È una narrativa perversa, simmetrica a quella di Hamas, che vede in quanto accaduto il carburante dell’ideologia. L’estremizzazione del discorso è qui, ora. Ma quando questa guerra finirà, una guerra che Netanyahu si illude di guidare ma che per fortuna è supervisionata dall’America, Bibi sarà spazzato via dalla scena politica come anche Hamas e allora, spero, si apriranno le porte per uno Stato palestinese».
Crede ancora nella soluzione dei due Stati?
«L’unica soluzione è che Abu Mazen assuma il controllo di Gaza e che nasca uno Stato palestinese, quello Stato che Bibi non voleva e che Hamas pensava non fosse abbastanza, contando entrambi, per ragioni diverse, di andare avanti così, tenendo l’uno i gazawi in una gabbia e l’altro contenendo la rappresaglia. Le loro bugie sono state smascherate. Nell’ebraismo si crede che a volte si debba passare attraverso situazioni terribili per arrivare in un posto migliore. Il 7 ottobre è stato un elettroshock, dopo Oslo, Rabin e la seconda intifada vivevamo nella stagnazione, abituati a scontri periodici e gestibili. Ora abbiamo una opportunità, è il momento di decidere per il cambiamento».
Dopo i primi drammatici giorni, la simpatia nei confronti di Israele si è dissolta. Si moltiplicano le manifestazioni contro l’occupazione ma anche gli atti di palese antisemitismo. Ha paura?
«In tanti non hanno simpatizzato con Israele neppure all’inizio, Susan Sarandon e Roger Waters e Angelina Jolie non hanno aspettato un secondo a obiettare sulle cause del massacro. Troppi, invece di parlare di realtà, hanno subito proiettato emozioni. È l’indice dei tempi, le persone non vogliono informazioni ma cause da sostenere. D’altra parte anche in Israele monta l’islamofobia. E poi certo, c’è anche l’antisemitismo vero e proprio, amplificato dalla semplificazione del linguaggio e diffuso senza controllo dai social. Se a Gaza s’invoca “Allah akbar” non si parla più di questione israelo- palestinese ma si entra in un campo molto diverso. E l’Europa che lascia attaccare gli ebrei per difendere la bandiera islamica della causa dei palestinesi sbaglia, ignora che dopo toccherà ai non ebrei».
Gira su Internet un appello di mille intellettuali ebrei, da Naomi Klein a Judit Butler, in cui si sostiene che criticare Netanyahu non può essere bollato come antisemitismo. Cosa ne pensa?
«Rispetto totalmente Naomi Klein e i suoi argomenti mentre non posso dire lo stesso di Judit Butler, che nella foga del discorso anticoloniale sostiene cose assurde come il fatto che la maggioranza degli ebrei d’Israele discenda dagli arabi. Ci sono ragionamenti contro Israele e l’occupazione assolutamente legittimi e altri propriamente antisemiti, basati sull’ignorare le responsabilità palestinese e sul vittimismo paternalista. Come se mia madre, sopravvissuta allo sterminio, fosse stata legittimata dalla sua tragedia ad ammazzare i tedeschi».
Che ruolo dovrebbero avere gli intellettuali? Lo chiedo a lei che, sembra ormai un secolo fa, firmò con Samir el Youssef, Gaza Blues.
«Credo che non ci sia nulla di più pericoloso dell’esercizio dell’empatia selettiva, piangere per i bambini dei kibbutz ma non per quelli palestinesi, denunciare il massacro di Gaza e pazienza per il 7 ottobre. L’umanità è dinamica e non c’entra nulla con la stagnazione ideologica che invece i social media pompano come finto attivismo. Una volta l’attivista fermava i bulldozer che distruggevano gli ulivi mandando al mondo un messaggio chiaro, oggi lancia la zuppa su un quadro di Van Gogh per difendere l’ambiente. Ma chi capisce per cosa lotta?».
È reale il pericolo che il conflitto si estenda in Cisgiordania o oltre, coinvolgendo in modo diretto la regione?
«Lo è. In questo scenario ci sono due agenti di caos. C’è l’Iran, che vorrebbe infiammare la regione attraverso Hezbollah e la Jihad islamica a Gaza, e non ha ancora deciso se rischiare. E ci sono i coloni fondamentalisti che vedono in questa crisi l’opportunità di prendersi più terra. No, dover contare sul buon cuore degli ayatollah e su quello dei coloni non mi fa affatto dormire sonni tranquilli».