Che cosa sbagliamo riguardo a Israele e Gaza

A proposito del massacro bilaterale in Medio Oriente che sta scatenando veleni destinati a peggiorare l’odio in tutto il mondo, permettetemi di indicare quelli che considero i tre miti che infiammano il dibattito:
Il primo mito è che nel conflitto in Medio Oriente ci sia il giusto da una parte e il torto dall’altra (anche se le persone non sono d’accordo su quale sia l’uno e l’altro).
La vita non è così chiara. La tragedia del Medio Oriente è che si tratta di uno scontro tra diritto e diritto. Ciò non giustifica il massacro e la ferocia di Hamas o lo spianamento di interi quartieri di Gaza da parte di Israele, ma alla base del conflitto ci sono alcune aspirazioni legittime che meritano di essere soddisfatte.
Gli israeliani meritano il loro Paese, forgiato dai rifugiati venuti dall’ombra dell’Olocausto e capaci di costruire un’economia ad alta tecnologia che dà ampio potere alle donne e rispetta le persone gay, dando ai propri cittadini palestinesi più diritti di quelli che la maggior parte delle nazioni arabe danno ai loro cittadini. I tribunali israeliani, la libertà dei media e la società civile sono modelli per la regione. Eppure [nel valutare Israele] c’è una sorta di doppio standard: i critici si avventano sugli abusi israeliani mentre spesso ignorano le brutalità prolungate contro i musulmani dallo Yemen alla Siria, dal Sahara occidentale allo Xinjiang.
Allo stesso modo, i palestinesi meritano un paese, meritano libertà e dignità – e non dovrebbero essere soggetti a pene collettive. Abbiamo raggiunto un tremendo traguardo: in sole cinque settimane di guerra, la metà dell’1% della popolazione di Gaza è stata uccisa. Per dirla in prospettiva, si tratta di una cifra superiore alla percentuale della popolazione americana uccisa durante tutta la seconda guerra mondiale, nel corso di quattro anni.
La grande maggioranza delle persone uccise sono donne e bambini, secondo il Ministero della Sanità di Gaza, controllato da Hamas. Un indicatore della ferocia e della natura indiscriminata di alcuni attacchi aerei è che sono stati uccisi più di 100 membri dello staff delle Nazioni Unite, cosa che secondo le Nazioni Unite è più di quanto avvenuto in qualsiasi conflitto sin dalla sua fondazione. Forse è perché, come ha affermato un portavoce militare israeliano all’inizio del conflitto, “l’enfasi è sui danni e non sulla precisione”.
“Siamo persone normali, che cercano di vivere”, mi ha detto al telefono un ingegnere di Gaza. Egli disprezza Hamas e vorrebbe vederlo rimosso dal potere, ma dice che i combattenti di Hamas sono al sicuro nei tunnel mentre lui e i suoi figli sono quelli più a rischio: “Siamo noi civili a pagarne il prezzo”.
Qualunque sia la vostra posizione, ricordate che l’altra include esseri umani disperati che sperano semplicemente che i loro figli possano vivere liberamente e prosperare nella propria nazione.
Il secondo mito è che i palestinesi possano essere scoraggiati del tutto, abbandonati a se stessi, da Israele, dagli Stati Uniti e da altri paesi. Questa era la strategia del primo ministro Benjamin Netanyahu, il suo modo di evitare uno Stato palestinese, e per un certo periodo ha funzionato – ma come funziona una pentola a pressione, finché non esplode.
Non ne abbiamo la conferma, è difficile perciò dire se uno Stato palestinese sarebbe stato migliore per la sicurezza israeliana. Ma l’apolidia palestinese in retrospettiva non ha reso Israele sicuro, e i rischi potrebbero aumentare se l’Autorità Palestinese crollasse a causa della corruzione, dell’inefficacia e della mancanza di legittimità.
Il presidente di Israele, Isaac Herzog, ha detto che uno degli attentatori di Hamas il 7 ottobre portava istruzioni per il rilascio di armi chimiche, e questo ci ricorda il rischio, di cui gli esperti di terrorismo si preoccupano da anni, che gruppi estremisti utilizzino agenti biologici e chimici.
Israele ha diritto di sentirsi in ansia in ogni caso, ma sospetto che il modo migliore per garantire la sua sicurezza potrebbe non essere quello di reprimere le aspirazioni palestinesi ma di onorarle con una soluzione a due Stati. Questa non è solo una concessione agli arabi, ma un riconoscimento pragmatico degli interessi di Israele – e del mondo.
Il terzo mito lo troviamo su entrambi i lati del conflitto e dice più o meno così: è un peccato dover ricorrere a questo spargimento di sangue, ma le persone dall’altra parte capiscono solo la violenza.
Lo sento da amici che sostengono la guerra contro Gaza e mi considerano ben intenzionato ma fuorviato, come un ingenuo che non riesce a comprendere la triste realtà che l’unico modo per mantenere Israele al sicuro è polverizzare Gaza e sradicare Hamas a qualunque costo umano.
Hamas infatti comprende solo la violenza, ed è stata brutale sia verso gli israeliani che verso i palestinesi – ma Hamas e i Palestinesi non sono la stessa cosa, proprio come i coloni violenti in Cisgiordania non rappresentano tutti gli israeliani. Sono favorevole agli attacchi chirurgici contro Hamas e sarei felice se Israele riuscisse a porre fine all’estremismo a Gaza. Ma finora, temo che la ferocia e la mancanza di precisione nell’attacco israeliano abbiano raggiunto l’obiettivo di Hamas, di aggravare la questione palestinese e cambiare la dinamica del Medio Oriente (Hamas è indifferente alle vittime palestinesi).
In questo senso Hamas potrebbe vincere. A cinque settimane dall’inizio di questa guerra, non vedo prove che l’esercito israeliano abbia indebolito Hamas in modo significativo, ma ha ucciso un gran numero di civili, ha posto la lotta palestinese in cima all’agenda globale, ha dissipato il torrente iniziale di simpatia per Israele, ha spinto le persone di tutto il mondo a marciare per la Palestina, ha distolto l’attenzione dagli israeliani rapiti e ha interrotto ogni possibilità di normalizzare le relazioni di Israele con l’Arabia Saudita.
Il mio amico Roy Grow, uno specialista di relazioni internazionali al Carleton College morto nel 2013, diceva che uno degli obiettivi cruciali delle organizzazioni terroristiche è indurre l’avversario a reagire in modo eccessivo. Ha paragonato questo tattica al jujitsu, con le organizzazioni terroristiche che sfruttano il peso dei loro avversari contro di loro – e questo è ciò che ha fatto Hamas.
Ciascuna parte ha disumanizzato l’altra, ma le persone sono complesse e nessuna delle due parti è monolitica – e bisogna ricordare che le guerre non riguardano le popolazioni ma le persone. Si tratta di persone come Mohammed Alshannat, uno studente di dottorato a Gaza, che ha inviato messaggi disperati agli amici i quali li hanno poi condivisi con me; egli mi ha dato il permesso di pubblicarli come uno sguardo sulla vita di Gaza.
“Ci sono stati pesanti bombardamenti nella nostra zona”, ha scritto in inglese in un messaggio. “Corriamo per salvarci la vita e ho perso due dei miei figli nell’oscurità. Io e mia moglie siamo rimasti tutta la notte a cercarli tra centinaia di attacchi aerei. Siamo miracolosamente sopravvissuti a un attacco aereo e la mattina li abbiamo trovati svenuti. Per favore prega per noi. La situazione è indescrivibile”.
“Vedo la morte cento volte al giorno”, scrisse un’altra volta. “Defechiamo all’aperto e i miei figli defecano da soli e non c’è acqua per pulirli”.
Se sopravvive alla guerra, cosa diremo noi americani a lui e ai suoi figli? Come spiegheremo che abbiamo fornito le bombe per questa guerra, che siamo stati complici del terrore e del degrado della sua famiglia?
Se c’è un percorso verso la pace – sia in due stati che in un solo stato – inizierà con il superamento degli stereotipi da parte di tutti noi. Gli israeliani non sono la stessa cosa di Netanyahu, e i palestinesi non sono la stessa cosa di Hamas.
Cercare l’umanità da entrambe le parti significa chiedere il rilascio degli ostaggi israeliani e denunciare quella disumanizzazione che porta alcune persone ad abbattere i manifesti per gli israeliani rapiti. Significa anche rinunciare a quella che Netanyahu chiama “potente vendetta” che trasforma interi quartieri di Gaza in macerie, con i corpi sepolti sotto.
Sono esasperato dalle persone che sanguinano solo per una parte, o che dicono del prezzo da pagare dall’altra: “È tragico, ma…”. Nessun “ma”. A meno che non si creda nei diritti umani (solo) per gli ebrei e (solo) per i palestinesi, ma in realtà non si crede nei diritti umani.
Se piangete solo per i bambini israeliani, o solo per i bambini palestinesi, avete un problema che va oltre i vostri condotti lacrimali. I bambini di entrambe le parti sono stati massacrati in modo sconsiderato, e per risolvere questa crisi bisogna riconoscere un principio così fondamentale che non dovrebbe essere necessario menzionarlo: la vita di tutti i bambini ha lo stesso valore e le brave persone arrivano da tutte le nazionalità.

* Nicholas Kristof è un opinionista del The New York Times, vincitore di due Pulitzer. Secondo il Washington Post, Kristof “ha riscritto il giornalismo d’opinione” con la sua enfasi sulle violazioni dei diritti umani e sulle ingiustizie sociali, come la tratta di esseri umani e il conflitto del Darfur”. L’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu lo ha descritto come un “africano onorario” per aver puntato i riflettori sui conflitti trascurati.