Voci dall’America

In questa Newsletter proponiamo tre articoli di nostra traduzione tratti dalla stampa americana, non disponibili su quella italiana. I primi due sono dedicati alla guerra in Medio Oriente, il terzo alla crisi della democrazia americana. Qui di seguito trovate nostre considerazioni suscitate dalla loro lettura e una sintesi orientata dei loro contenuti.
1. Di fronte a un massacro bilaterale da che parte dobbiamo stare?
È proprio questa la domanda?
“Se ciascun popolo guarderà solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del risentimento, della rappresaglia, della vendetta.” (Carlo Maria Martini)
“Se piangete solo per i bambini israeliani, o solo per i bambini palestinesi, avete un problema che va oltre i vostri condotti lacrimali.” (Nicholas Kristof)
Essere di parte, o equidistanti o equi-vicini?
Se non si è cinici o apatici fino al midollo, quando scoppiano conflitti come quello in atto in Israele-Palestina è impossibile non interrogarsi sull’atteggiamento che sarebbe sensato assumere. Non possiamo essere bombardati – è la parola giusta – da fatti tragici e rischiosi senza proteggerci in qualche modo, se non altro stabilendo “che faccia fare”. Se non siamo megalomani o fuori dal mondo – ce ne sono parecchi in giro -, dovremmo ugualmente sapere che nel breve periodo non saremo in grado di contribuire in nulla alla soluzione del problema, ma almeno ci saremo dati una prospettiva su cui convogliare le nostre reazioni e le nostre emozioni, e questo forse potrà essere di qualche effetto, se non ora, domani.
Questo elementare meccanismo di sopravvivenza, non so dire se morale o solamente psicologica, è in tempi come questi oggetto di incursioni continue da chi vorrebbe a ogni piè sospinto indurci a ragionare in base al binomio amico – nemico. Si tratta di decidere sempre da che parte stare, a prescindere da ogni specificità del caso e della storia, come se la ragione avesse questa strana tendenza a rifugiarsi sempre da una parte e si trattasse semplicemente di decidere quale essa sia. Nulla di più irritante per coloro che ragionano in questo modo di chi rifiuta questa logica “armata”, indicato come persone dall’animo ignavo e indolente, sostanzialmente irresponsabile. Come se alle guerre, sempre, si dovesse partecipare iniziando con il decidere qual è la propria squadra.
Ma se, in questa tragica vicenda, un mattino proviamo a metterci nei panni degli israeliani e il pomeriggio in quelli dei palestinesi – non in quelli di Netanyahu e di Hamas – e lo facciamo pur sapendo che queste operazioni riescono fino a un certo punto, non sarà piuttosto intuitivo concludere che si possono capire le ragioni degli uni e degli altri, per quanto speculari esse siano e per quanto amaro possa essere il sentimento della loro ardua componibilità?
È possibile allora un altro modo di porsi? È l’equidistanza ciò che andiamo cercando? Certamente no. La parola suscita qualcosa di algido e apatico. L’equidistanza è molto vicina alla posizione che l’Europa ha mantenuto per lunghi anni, non facendo nulla perché il seme dell’odio si placasse in Palestina e sperando che un velo magico si stendesse sulle paure degli uni e le sofferenze degli altri.
Verrebbe allora in mente una parola come “equivicinanza”, solo che essa non c’è nei dizionari della lingua italiana e anche questo è significativo: si può essere equanimi solo nella lontananza, non nella vicinanza. Il Treccani, mettendola tra le parole che vengono usate, anche se non hanno dignità linguistica la definisce: “Posizione di neutralità che si preoccupa di recepire e comporre con equanimità istanze contrapposte”, una definizione ancora troppo distaccata per scaldare i cuori. Manca quella componente di compassione (da compati: patire con) che invece andiamo cercando. In ogni caso il Treccani subito dopo riporta citazioni che la definiscono un “orribile neologismo”, “di cui non si sentiva il bisogno”. Non si sentiva il bisogno? Ma scherziamo?
La parola del resto ha una bizzarra genealogia. Fu usata dal ministro degli esteri D’Alema nel 2006 proprio a proposito del conflitto in Palestina. D’Alema raccontò poi al Corriere che “in Italia [lo] presero in giro”. Egli riconobbe di averla ripresa da Andreotti il quale fu il primo ad usarla, si dice su suggerimento dell’ambasciatore israeliano presso la santa sede. “Non si può pensare di risolvere i problemi dicendo semplicemente: o sei con i palestinesi o sei con gli israeliani” disse in un intervento al Senato. Con i tempi che corrono può succedere anche di rimpiangere Andreotti…
Qui non risolveremo il problema linguistico e in ogni caso non è (solo) linguistica la questione. Ma qualcosa di sensato si può forse dire appoggiandosi a una persona che l’ “equivicinanza” ha provato a incarnarla e a soffrirla.
Un nostro caro amico Stefano Bertin, tra i promotori del Forum di Limena, qualche giorno fa ci ha raccontato che: “Quando in piena seconda intifada portammo come Azione Cattolica Nazionale aiuto all’Azione Cattolica di Betlemme avemmo modo di incontrare per due giorni il card. Martini, al quale chiedemmo come si poneva nel persistente conflitto in atto. Egli ci sorprese perché non distribuì giudizi a destra e a manca, ma condivise con noi la sua scelta di “intercedere” tra i fronti in guerra. Con questo egli intendeva: ascolto profondo (in latino “obbedire”) delle ragioni dell’uno e dell’altro, interiorizzare il dolore di tutti (abitarlo) e avviare con paziente tenacia sentieri di dialogo e di convivenza pacifica…”.
Il teologo Brunetto Salvarani nei giorni scorsi ha riportato una citazione di Martini che chiarisce ulteriormente la sua posizione: «Certamente l’odio che si è accumulato è grande e grava sui cuori. Vi sono persone e gruppi che se ne nutrono come di un veleno che mentre tiene in vita insieme uccide. Per superare l’idolo dell’odio e della violenza è molto importante imparare a guardare al dolore dell’altro. La memoria delle sofferenze accumulate in tanti anni alimenta l’odio quando essa è memoria soltanto di se stessi, quando è riferita esclusivamente a sé, al proprio gruppo, alla propria giusta causa. Se ciascun popolo guarderà solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del risentimento, della rappresaglia, della vendetta. Ma se la memoria del dolore sarà anche memoria della sofferenza dell’altro, dell’estraneo e persino del nemico, allora essa può rappresentare l’inizio di un processo di comprensione. Dare voce al dolore altrui è premessa di ogni futura politica di pace».
Potremmo provare a confrontarci di tanto in tanto con queste parole, tentare di esprimere un qualche lampo di incarnazione, anche se esse, nella loro serietà, dicono implicitamente quanto sia lunga e faticosa la via della pace.
Tre miti ostacolano la pace. Un articolo del New York Times
Tre settimane fa, il 15 di novembre¸ The New York Times ha pubblicato un editoriale che in un certo senso va nella direzione indicata da Martini. Ne è autore il giornalista Nicholas Kristof, vincitore di due premi Pulitzer e particolarmente attento alle ingiustizie sociali, tanto da essere chiamato dall’arcivescovo Desmond Tutu “africano onorario”. Dopo la fine della tregua e la ripresa dei bombardamenti “imprecisi” su Gaza le sue considerazioni paiono ancora più centrate. Di seguito una sintesi.
Il confronto su quello che Kristof chiama “massacro bilaterale” appare reso incandescente dal prevalere di tre “miti”, nel senso di racconti privi di fondamento.
1. Il primo mito è che nel conflitto in Medio Oriente ci sia il giusto da una parte e il torto dall’altra. Ma la tragedia del Medio Oriente sta proprio nel fatto che si tratta di uno scontro tra diritto e diritto. Ciò non giustifica i massacri “bilaterali”, ma rende necessario capire che alla base del conflitto ci sono aspirazioni legittime che meritano di essere soddisfatte, da entrambe le parti. E perciò “qualunque sia la vostra posizione, ricordate che l’altra include esseri umani disperati che sperano semplicemente che i loro figli possano vivere liberamente e prosperare nella propria nazione”.
2. Il secondo mito è che i palestinesi possano essere lasciati indefinitamente senza una soluzione del loro problema nazionale. Gli Israeliani hanno le loro ragioni nel non sentirsi sicuri, ma dovrebbero comprendere, e noi con loro, che la mancanza di uno stato palestinese non ha reso Israele più sicuro. Una soluzione a due stati non sarebbe perciò una concessione agli arabi, ma il riconoscimento pragmatico dei propri veri interessi.
3. Il terzo mito è quell’idea diffusa in entrambi i lati del conflitto che dice più o meno così: è un peccato dover ricorrere a questo spargimento di sangue, ma le persone dall’altra parte capiscono solo la violenza. È questo ragionamento che finisce per giustificare qualsiasi costo umano, per quanto grande esso sia. Ma proprio il modo eccessivo con cui si reagisce alle organizzazione terroristiche può diventare la ragione di una loro possibile vittoria. Così Israele sta progressivamente dissipando la simpatia che inizialmente aveva.
Se c’è una strada verso la pace questa inizia con il superamento degli stereotipi da parte di tutti noi. Kristof dice di essere “esasperato dalle persone che sanguinano solo per una parte, o che dicono del prezzo da pagare dall’altra, quelle che si rifugiano nel: “È tragico, ma…”. Nessun “ma”. A meno che non si creda nei diritti umani” solo per alcuni e non per tutti.
Se piangete solo per i bambini israeliani, o solo per i bambini palestinesi, avete un problema che va oltre i vostri condotti lacrimali. I bambini di entrambe le parti sono stati massacrati in modo sconsiderato, e per risolvere questa crisi bisogna riconoscere che “la vita di tutti i bambini ha lo stesso valore e le brave persone arrivano da tutte le nazionalità”.
2. Hamas e Israele. Tre guerre in una.
Il 28/11/2023 The New York Times ha pubblicato un nuovo corposo articolo di T. H. Friedman, l’apprezzato e influente columnist, che da 40 anni si occupa di Palestina e da giovane ha vissuto nei Kibbutz israeliani. Nelle settimane precedenti era già intervenuto due volte per sottolineare il proprio allarme per quanto stava accadendo in Medio Oriente e richiamare l’amministrazione americana alle proprie responsabilità. Come già allora con questo intervento il NYT si propone di interloquire con l’amministrazione Biden per suggerire strategie di azione in grado di evitare guai peggiori.
Leggendolo Friedman si rimane colpiti dalla differenza con gli interventi che vedo nei giornali italiani. Mentre qui da noi tutta la discussione verte sul “da che parte stare”, in America l’approccio è del tipo: “c’è un problema, come possiamo risolverlo?” Idealismo e pragmatismo? Forse, ma si può pensare che sia invece l’effetto della diversità tra chi non conta nulla (noi) e chi può decidere qualcosa (gli americani).
Friedman ritiene che in Israele-Palestina siano in atto contemporaneamente tre guerre e che vi sia una sola formula che permette alle “forze positive” di vincerle tutte tre, una formula che – a suo avviso – Biden ha in testa, ma che non può dire esplicitamente. La chiave di volta per pacificare la regione è operare al fine di costituire una Autorità Palestinese che possa sostituire Hamas a Gaza, cosa che renderebbe possibile agli stati arabi moderati giustificare la normalizzazione dei rapporti con Israele. Ci sono due forze che si oppongono a questa ipotesi e sono da un lato Hamas, che perciò va ridotta all’impossibilità di offendere, e dall’altro la coalizione di estrema destra capeggiata da Netanyahu. La formula vincente non trova soluzione se Netanyau è primo ministro di Israele. Biden dovrebbe perciò stare attento a non diventare succube di “Bibi” (Netanyahu).
Quali sono le tre guerre cui allude Friedman?
1. La prima è il conflitto secolare tra ebrei israeliani e palestinesi. Purtroppo la parte palestinese è oggi guidata da una organizzazione islamista che vuole distruggere Israele. Questi avrebbe il sostegno tacito dei paesi arabi moderati nel porre fine al governo di Hamas, organizzazione che anche a loro dà fastidio, ma deve assolutamente prestare maggiore attenzione alle vittime civili.
2. la seconda guerra è interna alla società israeliana da un lato, a quella palestinese dall’altro. Hamas concepisce il conflitto come una guerra etnico-religiosa finalizzata a imporre uno stato islamico in tutta la Palestina. Specularmente i coloni ebraici suprematisti che fanno parte del governo di Netanyahu pensano di spazzare via tutti i palestinesi, equiparati agli Amaleciti di biblica memoria, al fine di creare uno stato etnico-religioso dal Giordano alla costa. In entrambi i popoli ci sono però forze moderate che sono favorevoli alla soluzione dei due stati, anche se oggi sono sulla difensiva.
3. La terza guerra è quella che l’Iran e i suoi alleati muovono all’America e agli stati arabi moderati. Questa è quella che fa più paura a Friedman, perché non riguarda solamente la questione geopolitica o le fonti di energia, ma anche i valori. Essa ha avuto inizio nel 2019 e si è sostanziata in alcuni episodi di cui la stampa italiana pare essersi dimenticata. L’obiettivo dell’Iran è quello di cacciare gli Stati Uniti, distruggere Israele e intimidire gli arabi sunniti alleati degli americani. La questione alla fine qui è se prevarrà l’Iran o l’Arabia Saudita. La cosa fondamentale da capire però è che la stretta che il regime di Teheran sta imponendo su Israele, da Ovest (Hamas), da Nord (Hesbollah) e da sud (Houthi dello Yemen) rappresenta una minaccia esistenziale per lo stato ebraico, perché sta impedendo a molti cittadini israeliani di rientrare nelle proprie case lungo le aree di confine e alla lunga potrebbe indurre alla fuga dalla Palestina proprio la parte più attiva e “laica” della popolazione.
Israele ha bisogno, per rompere l’accerchiamento del sostegno degli USA e degli stati arabi moderati, ma questa alleanza non si realizzerà se Netahanyau continuerà a governare. E con ciò si ritorna alla radice che serve trovare per risolvere la formula iniziale.
3. Siamo forse alla crisi della democrazia americana.
Dopo la “marcia per salvare l’America” del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill le difficoltà incontrate dalla democrazia americana sono divenute evidenti a tutti. La relativa normalità succeduta nei due anni successivi e le disavventure giudiziarie in cui Trump è stato coinvolto avevano tuttavia fatto pensare che costui fosse ormai fuori gioco e i rischi più grandi evitati. È sempre più evidente invece che le possibilità di una vittoria di Trump alle prossime presidenziali sono rilevanti.
Il 30 novembre 2023 il Washington Post ha pubblicato un lunghissimo articolo (11 pagine) dal titolo quanto mai chiaro: “Una dittatura di Trump è sempre più inevitabile. Dovremmo smettere di fingere”. Si tratta di una analisi accurata dei processi forse inarrestabili che si metteranno in moto una volta che Trump avrà vinto le primarie repubblicane, cosa ormai certa. Si può dire che l’articolo non approfondisce le ragioni sociale e culturali della deriva autoritaria di una parte rilevante dell’elettorato americano, ma il senso dell’articolo è un altro. Si tratta di un quasi disperato appello a chi ancora può porre in atto qualcosa per arrestare l’ascesa di Trump perché lo faccia e lo faccia subito. Più ancora che di carattere istituzionale le ragioni della preoccupante deriva che potrebbe coinvolgere l’America dipendono dal fatto che il potere di Trump si fonda sulla disponibilità a mobilitarsi in suo sostegno e in dispregio delle regole del gioco democratico, di una parte rilevante della società americana, quella che considera gli oppositori di Trump “nemici dell’America” o addirittura “non americani”.
Ci sarà tempo per dire quali potranno essere le conseguenze, certo molto rilevanti, di una vittoria di Trump sulle relazioni internazionali e sull’Europa in particolare. Ma forse si può già intravedere qualcosa nell’intervista rilasciata il 4/11/2023 da Joschka Fischer, già ministro degli esteri e fondatore dei “Verdi” tedeschi, movimento nato proprio dal rifiuto del nucleare, quando dichiara tristemente che un’Europa ormai sola non potrà non tornare a sviluppare una propria deterrenza atomica per difendersi dalla nuova aggressività proveniente da Est.
Va considerato che l’autore dell’articolo in questione non è un uomo di sinistra. Robert Kagan è uno storico e politologo, cofondatore del “Progetto per un nuovo secolo americano” e sostenitore di una politica estera aggressiva. Egli è stato consigliere del senatore repubblicano John McCain nella corsa per le presidenziali del 2008 e del repubblicano Mit Romney nella sua sfida contro il presidente in carica Barack Obama nel 2012. Successivamente ha abbandonato il partito repubblicano in polemica con Trump.
Tradurre il suo intervento sarebbe stato troppo lungo e si può dubitare che molti avrebbero avuto il tempo per leggerlo tutto. Si è preferito perciò farne una sintesi in due pagine. Chi ha voglia di leggere l’originale in inglese può trovarlo qui.
https://www.washingtonpost.com/opinions/2023/11/30/trump-dictator-2024-election-robert-kagan/