NESSUNO È SFUGGITO AL COVID! Idee per una lettura delle implicazioni sociali e culturali della pandemia

Un fenomeno globale

Perché questo titolo? Perché nessuno può sfuggire al Covid? Apparentemente solo una minoranza ha preso il Covid, non c’è dubbio però che tutti noi siamo stati duramente influenzati dal suo affacciarsi, come non avveniva da molto tempo, forse dai tempi di guerra.

In estrema sintesi, la pandemia da Covid 19 con cui abbiamo dovuto fare i conti rappresenta un fenomeno globale, improvviso, multidimensionale, interconnesso, pervasivo. Vediamo come.

Globale, e simultaneo: un ente (SARS-cov-2) dal peso e dimensioni prossime allo zero (un milionesimo di miliardesimo di grammo), privo di finalità, che non sappiamo nemmeno dire se sia vivente o meno, nel giro di pochi mesi si diffonde in tutto il mondo, colpendo fino a oggi 250 milioni di persone e uccidendone 5 (dati sottostimati), fino a generare un vero e proprio “cataclisma mondiale” (E. Morin).

Perché tutto questo? Che senso ha? Ha un senso? Questa stravagante entità si presenta ai nostro occhi non solo come un problema sanitario, ma anche come una gigantesca irruzione dell’assurdo, del non senso, nelle nostre vite. Dove qualche ordine era riconoscibile, o almeno così ci sembrava, ora scorgiamo caos e irrazionalità. La postmodernità ci ha insegnato a evitare domande troppo impegnative. Ma è inutile nascondersi dietro un dito: avvenimenti come questi non possono non scuotere gli animi nel profondo. Scrive Morena Cadaldini, neurologa che ha vissuto il primo avvento del Covid in Italia nell’ospedale di Vo’ (Padova): si è “aperto un varco intrapsichico che ha permesso la fuoriuscita di materiale inconscio: paure, angosce, l’antichissimo terrore del contatto…” Ora, questo varco pone il problema di “come affrontare i contenuti profondi emersi: molto dipenderà dal senso che riusciremo a dare a questo evento traumatico”. Avvenimenti come la pandemia non richiedono cioè solo delle cure e delle pratiche di contrasto, domandano risposte sul piano del senso. Questo per ora è mancato, anche da parte della religione.

Improvviso: ricordate quando vedevamo gli abitanti di Wuhan con la mascherina? “Speriamo che non venga qui…” pensavamo tutti. Ma i virus adesso prendono l’aereo; solo un paio di mesi dopo… tutti con la mascherina. Ci auguravamo non durasse a lungo; chi avrebbe pensato che due anni dopo saremmo stati ancora qui con la museruola… Ma la “spagnola” dopo due anni non era finita? Cosa succede? Le domande sottilmente inquietanti non cessano di venire a galla.

Multidimensionale e interconnesso (complexus, nel senso di tessuto insieme), che si estende:

  • dalla sfera privata (confinamento e distanziamento): con il rarefarsi delle relazioni, gruppi che si sciolgono, altri che se ne formano… affetti familiari riscoperti o sottoposti a tensioni…
  • a quella sociale: trasporti (meglio ridurre le corse o aumentarle? Come fare?), scuole (chiuse, in Dad, ragazzi privati di volti amici, adolescenti distanziati a forza, studenti bloccati negli studi), lavoro (smart working), sport (ricorderemo quelle bizzarre olimpiadi senza pubblico)
  • a quella economica: Il PIL mondiale nel 2020 scende del 3% (e d’altro lato la CO2 va a meno 6,7…). Weymuller e Giavazzi stimano che il debito indotto dal Covid sia pari al 19,2%del PIL, mentre quello indotto dalla crisi del 2008-2009 si ritiene sia stato del 12,7%. Le persone in condizioni di povertà erano diminuite dal 1999 al 2019 di un miliardo di individui; per la prima volta (se si esclude la pausa della crisi finanziaria asiatica del 97/98) aumentano: si stima siano 120 milioni in più… Si prevede che i paesi più poveri avranno bisogno di molti anni per riportare il loro reddito nazionale a livelli pre-covid.
  • a quella tecnologica: qui c’è stata una fortissima accelerazione: sviluppo del telelavoro, della didattica a distanza, ecc. Tutti a guardarci da lontano; parole nuove con cui dover familiarizzare: Webinar, riunioni su Skype, Zoom. Quest’ultima piattaforma nasce nel 2011; con la pandemia le interazioni passano da 20 a 300 milioni al giorno. Cose che almeno in parte resteranno.
  • alla sfera politica: cambia il rapporto cittadini-stato, uno stato che diviene nuovamente protagonista, da cui ci attendiamo soluzioni, cui si deve obbedire e ai cui ordini alcuni cercano di sfuggire.

Cambiano i movimenti: avevamo le “Sardine”, poi uccise dal distanziamento, e ora abbiamo quelli che i giornali chiamano no-vax, no-green pass, no-mask. Prosegue e si radicalizza la tendenza dei movimenti sociali a presentarsi in modalità single issue (movimenti monotematici), lungo una linea di sviluppo che li induce sempre di più a concentrarsi su temi ristretti, cui però si cerca di dare un significato politico generale: la difesa della libertà. Ragione sufficiente per tornare in piazza di sabato in sabato, in forme non tropo gentili.

Ci ritroviamo con un, a dir poco inatteso, governo di unità nazionale, che oscura radicali fratture esistenti tra le forze politiche. Miracoli del Covid…

Accettiamo con un sospiro di sollievo un governo di alto profilo tecnocratico, dopo che populisti di ogni risma avevano lavorato sodo per delegittimare tecnici e competenti in nome della rappresentanza diretta del popolo “sovrano”.

Pervasivo: per un po’ non si è pensato ad altro, ancora fatichiamo a pensare ad altro. Quanto tempo vi abbiamo dedicato? Quante volte nel salottino della politica politicante della signora Gruber abbiamo sentito la fatidica domanda: Pfizer o Astrazeneca (ed altre analoghe domande dal patente spessore filosofico…). Abbiamo fatto esperienza di “una creatura mitica che dall’incipit di un virus si è impossessata di ogni attenzione e di tutte le vite del mondo” (…) “È stato un contagio delle menti prima che dei corpi” (Baricco). Che desiderio di liberazione!

Prevedibile, ma solo per quanto riguarda il fatto che sarebbe arrivato; non sapevamo quando e come, ma sapevamo che sarebbe giunto: il discorso di Anthony Fauci al congresso americano è dei primi anni del secolo, il libro Spillover di David Quammen, nel quale si sottolineava come la distruzione degli habitat naturali avrebbe facilitato il salto di specie e si indicava nei coronavirus i più probabili agenti della futura epidemia, è del 2012. Probabile e però ancora oggi imprevedibile nel suo sviluppo (Dio mio, le varianti…).

Ci ritroviamo insomma di fronte a un fenomeno globale in cui tutto è interconnesso; che ci costringe a comprendere che quanto sembrava separato in realtà è inseparabile (E. Morin), un avvenimento che richiede risposte globali e pervasive.

L’impatto forse più radicale si è avuto nelle libertà che caratterizzano il nostro stile di vita (L. Violante). Il lockdown (confinamento) ci ha bloccati in casa e, a sentire Hobbes, la libertà non è altro che “assenza di impedimento al moto”. O, come dicono due liberali dei giorni nostri (A. Corbellini, G. Mingardi), in un libro appena uscito: “La libertà è bere il caffè al bar da una tazzina di porcellana”. È stato difficile “riprendersi la tazzina” e non è detto che l’abbiamo riconquistata definitivamente.

Una fragilità più radicale

Altri aspetti centrali sono stati l’incertezza e, ma forse in forma meno evidente, la paura; sentimenti che non ci hanno più lasciato.

Un brivido ci ha attraversati. Non eravamo abituati a questi avvenimenti, noi qui nel ricco Nord del mondo, protetti dalle angosce e dalle catastrofi del Sud. Venivamo da un lungo periodo di pace e, con pause, di sviluppo, anche se con una frequenza crescente di sintomi di crisi, dell’economia e dell’ordine globale… Si sapeva che una cattiva aria aveva cominciato a tirare, ma si sperava che ci fosse più tempo, e che spirasse da altre parti. Invece no, è qui, adesso.

Ci si para davanti una situazione vagamente apocalittica, insensata, dicevo. Non per nulla si prova a reagire ricorrendo agli esorcismi: “andrà tutto bene…”, come nei film americani è solito dire il soldato chino sul commilitone morente.

Ci siamo ritrovati un po’ traumatizzati dalla scoperta che scienza e tecnologia non erano onnipotenti e che perciò bisognava chiudersi in casa, come nei tempi andati. A distanza di due anni dall’inizio della pandemia le nostre società ipertecnologiche scoprono di dover accettare il fatto di essere ancora vulnerabili di fronte alle nuove ondate del virus; che le grandi epidemie non sono solo un fatto del passato, come si pensava nel secolo scorso, tanto che negli Usa pensavano di ridurre il numero di cattedre di virologia; che non ci libereremo mai di virus e batteri. Sembra tanto che siamo tornati a fare i conti con la condizione umana…

Siamo frastornati; posti brutalmente di fronte come siamo alla necessità di diventare nuovamente consapevoli che l’incertezza accompagna la vita umana e che dobbiamo attrezzarci per fronteggiarla e imparare a convivere con questo scomodo ospite. Il mito prometeico dell’uomo il cui destino è diventare padrone della terra e della vita, un dominio che alcuni pensavano fossimo sul punto di realizzare (Il superumano…), subisce un colpo frontale.

Finisce l’occultamento della fragilità in cui ci eravamo crogiolati. Siamo nient’altro che “giocatori-giocati, possidenti-posseduti, potenti-deboli” (E. Morin).

Attenzione: non è solo la fragilità individuale a venire in primo piano; questa l’abbiamo sempre conosciuta, anche se a volte facciamo finta che non ci riguardi qui e ora, ma anche e soprattutto quella sistemica, quella cioè che fa vacillare l’organizzazione sociale nel suo complesso, il sistema economico, quello politico. La paura che ci ha sfiorato è stata quella del collasso, di quell’implosione delle nostre società che i film di fantascienza hanno anticipato, delineando sconfortanti paesaggi post-apocalittici.

Questa incertezza ha riguardato anche le politiche. Purtroppo le politiche di contrasto sono affette da incertezza, le scienze stesse ci sono apparse tali. Quando si ricostruirà quanto avvenuto si vedrà che ci sono stati molti errori, sicuramente troppi, ma il fatto non ci sorprenderà. Capiremo meglio che nessuno aveva la bacchetta magica, che era inevitabile procedere passo dopo passo, per prove ed errori, anche se questo ci ha fatto molto arrabbiare e, non di rado, con ragione. Perché il potere ha le sue preferenze anche in fatto di errori, predilige quelli che lo mettono in discussione il meno possibile.

Noi abbiamo difficoltà a capire l’incertezza delle politiche, immaginiamo che i politici siano onnipotenti e che abbiano consiglieri capaci di pareri certi, in quanto noi “vogliamo delle risposte univoche perché una verità parziale, in divenire, è molto più scomoda da maneggiare” (P. Giordano). Ma dobbiamo prendere atto che spesso queste risposte certe non le abbiamo avute, né potevamo averle. Abbiamo dovuto procedere un passo dopo l’altro, per adattamenti successivi. Non c’era San Gennaro…

Il senso. Una pedagogia possibile del covid

Ora, è impossibile comprendere tutti gli effetti della pandemia: ne sappiamo poco anche sotto il profilo epidemiologico… figuriamoci su altri piani. Tanti fenomeni si affacciano e bisognerà fare molte ricerche per capire meglio (ammesso che si facciano…). Un esempio qualsiasi: tra aprile e giugno, in una fase di ripresa dell’occupazione, ci sono stati in Italia mezzo milione di licenziamenti volontari, una cifra altissima (cfr. LaVoce.info). Perché? È un trascinamento del fatto che prima non si aveva il coraggio di farlo? Alcuni italiani stanno rivedendo le loro priorità rispetto a lavoro/vita? Non lo sappiamo, vedremo.

La domanda da porsi

Più importante interrogarsi allora sul senso di quanto avvenuto, sulla lezione da trarre, non solo sul piano sanitario. Che cosa ci ha insegnato il Covid, sul piano sociale e su quello culturale? Che cosa potrebbe insegnarci…? C’è un magistero del Covid? E noi, abbiamo voglia di ascoltarlo? Perché non è scontato che impareremo davvero qualcosa. In genere noi preferiamo dimenticare, abbiamo la memoria corta…  Anche se le cassandre, esagerando, ci dicono che “nulla sarà come prima”, speriamo “che tutto torni come prima” e lavoriamo attivamente per questo.

Alcuni di voi conosceranno Albert Camus, il suo romanzo “La peste”, da rileggere con attenzione di questi tempi. Vi si racconta di una città algerina, Orano, colpita dalla peste bubbonica. Camus è convinto che la storia non abbia un senso, e nel libro è interessato a esplorare questa materializzazione dell’assurdo, descrivendo con attenzione i diversi modi di reagire ad essa: Paneloux, Rieux, Cottard, ecc. Evidentemente lo fa perché pensa di avere qualcosa da dirci. Camus è un grande letterato, ma è anche un uomo impegnato. Pur credendo che la storia umana sia insensata, egli pensava che occorresse vivere con coraggio, giustizia e dignità. La “rivolta” contro l’assurdo prende perciò in lui le forme di un’etica della resistenza e della solidarietà con gli altri essere umani, malgrado tutto.

Ma Camus non si faceva grandi illusioni circa la nostra capacità di apprendere. Ancora prima di iniziare a scrivere il romanzo, nei Taccuini su cui prende appunti, scrive: “Moralità della peste: non è servita a nulla e a nessuno. Soltanto quelli che la morte ha toccato, direttamente o nei loro congiunti, hanno imparato. Ma la verità che hanno conquistato riguarda soltanto loro. E’ senza avvenire”. “Quale lezione trarre dalla peste? Cosa ci ha insegnato? A cosa è servita? A un bel niente”, commenta Alessandro Piperno nell’introduzione a una recente traduzione del romanzo.

Una metafora del futuro

Non penso però che ci si debba arrendere a queste parole, posto che siamo qui questa sera a parlare tra di noi… Mi chiedo allora se non dovremmo provare a dare un senso, se non trovare un senso a quanto sta avvenendo. Cerchiamo di dare insieme un senso… Cosa ne dite?

Come la peste di Camus è (anche) una grande metafora dell’autoritarismo totalitario (a darne una interpretazione peraltro riduttiva), proporrei di considerare la pandemia come una grande metafora di quanto attende l’umanità, le prove generali della grande questione del domani, che è già dell’oggi: climate change, global worming (cambiamento climatico e riscaldamento globale). La pandemia vista come una occasione ulteriore, forse l’ultima, per ripensare il nostro modo di abitare la terra. Come gestiamo la crisi attuale, come usciamo dalla crisi del Covid prefigura infatti come usciremo dalla grande questione del nostro tempo.

In questi giorni se ne parla molto: G20 di Roma, Cop26 di Glasgow, ecc. Ma ricordiamo che il rapporto Meadows, su “I limiti dello sviluppo”, che ha sollevato per la prima volta la tematica ecologica, è del 1972, circa 50 anni fa. C’è stata, voglio dire, una estrema lentezza nella presa di coscienza ecologista.

Oggi le cose sono cambiate? Non lo so, ma fino all’esperienza del Covid anche chi era sensibile al tema, chi era consapevole del moltiplicarsi delle emergenze e non negava l’importanza e l’urgenza della posta in gioco, poi nell’intimo raramente credeva che la cosa lo riguardasse direttamente, raramente sentiva di essere parte di questa narrazione catastrofica. Si trattava piuttosto di una minaccia percepita come astratta e lontana, per la quale non si sentiva l’urgenza di agire, che meritasse delle rinunce importanti (Blengino). Né i continui e sempre più noiosi riferimenti nei media ai ghiacciai che si sciolgono, alle foreste che bruciano, alle specie che scompaiono servivano a molto: un rumore di fondo dal carattere anestetizzante, più che uno stimolo al risveglio delle coscienze.

Se il Covid può insegnarci qualcosa, dovremmo poter capire meglio oggi che tutto è connesso e che perciò tutti gli umani appartengono a una comunità di destino strettamente legata a quello della terra (E. Morin). Oggi siamo forse più consapevoli che “tutto può succedere” o dovremmo esserlo. Gli eventi naturali del resto, ad ogni anno che passa, ci fanno comprendere sempre di più che non si tratta solo di qualcosa che riguarda il domani. O occorrerà aspettare di trovarsi sull’orlo dell’abisso? Sempre che non ci siamo già?

Una risposta non troppo negativa

Possiamo anche permetterci di non dare una lettura troppo negativa di quanto sta avvenendo, del modo in cui abbiamo reagito; non ci serve. Il bilancio non è poi così negativo: il temuto collasso probabilmente non ci sarà. I governi con incertezze a cascata hanno adottato politiche di contrasto di una certa utilità, i cittadini in grande maggioranza hanno risposto, la scienza è stata rapida nel trovare strumenti efficaci, anche se gli scienziati hanno contribuito ad accrescere il caos delle nostre menti. In qualche modo la pandemia è stata gestita, non è stata come la peste del medioevo.

Nel contempo stiamo capendo (dovremmo…) che non ci si salva da soli, che io non posso stare bene se tu stai male, che la salute è un bene pubblico, che tutti contribuiamo a una risposta che deve essere sistemica.

Il confinamento (lockdown) è stato anche questo, non solo una limitazione delle libertà. Senza con questo nasconderci che ha implicato una rarefazione delle relazioni, generando condizioni di vita molto squilibrate: ricchi e poveri, abitazioni grandi e piccole; giovani e vecchi, vedovi/e, nomadi giostrai che vanno alla Caritas, sans papier e lavoratori informali senza reddito fisso privi di aiuto statale. Abbiamo dovuto rinchiuderci nell’attesa speranzosa del rimedio medico (i vaccini). Questi poi arrivano, perché c’è un grande investimento pubblico (e dovremmo ricordarlo). Si ritorna alle relazioni, ma senza esagerare, con ancora distanziamento, poi ci si preoccupa della “variante”, si valuta cosa fare e via dicendo. Una specie di ruota, la terza ondata, la quarta…

Non ne siamo ancora fuori, ma possiamo cominciare a pensare di poter affrontare una crisi globale, con la cooperazione, l’intervento degli stati, la partecipazione (o almeno il coinvolgimento più o meno costretto…) dei cittadini, ecc. Non tutti i conti tornano naturalmente. Ci sono stati morti e sofferenze, molti problemi rimangono aperti. Basterebbe pensare alla questione del nazionalismo vaccinale e della terza dose, sollevata recentemente dal direttore generale dell’OMS, solo per citare un esempio.

Alcuni temi di cui discutere

Il valore del lavoro

Un primo tema, delimitato, ma importante. Il covid ha fatto emergere alcune professioni oscure cui solitamente viene assegnata una scarsa considerazione sociale: spazzini, inservienti, cassiere, camionisti, corrieri, centralinisti, riders, orticultori, ecc.

Il Covid ha dimostrato che si tratta di lavoratori più importanti dei campioni della finanza e che queste persone erano disponibili a rischiare per noi. Non dovremmo dimenticarlo. Non dovremmo dimenticarle.

Si tratta di professioni poco pagate e poco considerate. Questi lavori svalutati dovrebbero da ora in poi godere di un diverso riconoscimento sociale e retributivo. Si trattava di un problema latente, che contribuisce a spiegare alcune derive della nostra società (l’antipolitica, certe rivolte di piazza apparentemente incomprensibili, ecc.) che ora dovrebbe essere affrontato.

Discorso solo in parte diverso quello delle professioni sanitarie e assistenziali, medici, infermieri, inservienti nelle case di riposo, ecc. Queste sono quelle che hanno rischiato di più, soprattutto nelle strutture pubbliche. Non è stato il privato a fronteggiare il Covid, è stato il pubblico. Non lo hanno fatto per soldi, non ne hanno ricevuti; lo hanno fatto per vocazione. Improvvisamente non sono più stati dei funzionari, ma dei missionari; hanno dovuto, si sono sentiti chiamati. Dovremmo riconoscere il valore affatto particolare del lavoro di quanti si dedicano agli altri (in prevalenza donne…), e in situazione di rischio; la società dovrebbe considerarli in proporzione alla grandezza della loro missione.

Anche perché se non lo faremo non troveremo più persone disponibili a fare questi lavori, come sta già avvenendo (cfr. i concorsi disattesi per gli impieghi nei pronto soccorsi e nei servizi più esposti). Non possiamo giocare troppo con la delegittimazione della sanità in quanto servizio pubblico rivolto alla tutela di un bene pubblico importante come la vita umana, come si è fatto in questi anni, perché è dove c’è una idea di servizio pubblico che nascono vocazioni e missioni.

L’idea di libertà e quella di diritto individuale

Nel pieno della pandemia si è aperta una discussione sul nostro concetto di libertà e di individuo. Non è strano: i conflitti del nostro tempo possono essere interpretati come uno scontro tra diverse idee di libertà (A. Honnet).

È una discussione che si è aperta nelle piazze, non nei salotti. È inevitabile che sia così. Il cambiamento culturale avviene nelle crisi, su questioni decisive in cui è in gioco la vita e la morte, non nelle conversazioni salottiere.

L’individualismo ha fatto molta strada nelle nostre società, sia nella sua dimensione positiva, quella della libertà del soggetto di disporre della propria vita senza essere determinato dal controllo sociale eteronomo; sia nella sua forma problematica, quella che in alcuni sta assumendo i connotati di un radicale individualismo etico; come nel titolo di un vecchio film di Germi: “Io, io, io e gli altri”. Una idea di libertà che talvolta appare solo libertina, quasi dimentica dell’imperativo kantiano di agire in modo da non recare pregiudizio alla libertà altrui; una idea portata a non considerare a fondo le conseguenze sociale dell’azione individuale; una sorta di diritto della propria volontà di imporsi a tutto e agli altri (M. Recalcati).

Non voglio estremizzare questa polarità, che ci aiuta solo fino a un certo punto a comprendere l’esitazione (o il rifiuto) vaccinale che interessa oggi una parte della popolazione. Non tutti coloro che rifiutano il vaccino sono degli individualisti in senso etico, questa scelta può sposarsi con atteggiamenti altruistici su altri piani. E chi invece sceglie di vaccinarsi non è detto che lo faccia per ragioni altruistiche. I più probabilmente lo fanno per proteggere se stessi e il fatto di vaccinarsi, di per sé, non conferisce loro una patente di altruismo che può non corrispondere per niente ad altri aspetti della loro vita.

In ogni caso in certe posizioni c’è una esasperata sottovalutazione del rischio di provocare contagi, una mancanza di responsabilità verso gli altri, oggettiva, anche se non necessariamente soggettiva, consapevole. Come se fossimo di fronte a individui che non vogliono riconoscere, prima ancora considerare, gli effetti del proprio agire.

Non si è sempre capito quanto il nostro benessere e la nostra libertà dipendano dalla cooperazione di tutti. E ciò rischia di suscitare reazioni esagerate anche nella parte pro, come quando si ipotizza il rifiuto delle cure ai non vaccinati.

Il discorso sarebbe lungo e le posizioni in campo andrebbero approfondite più di quanto io possa fare in questa occasione. Solo qualche cenno:

– il legame tra esitazione vaccinale e livelli di scolarizzazione non è sempre dirimente. Non sono gli incolti a rifiutare il vaccino. In Italia sembra che coloro che lo rifiutano siano più diffusi tra le persone che si collocano su livelli bassi di istruzione (Euromedia Research), ma in altri paesi avviene l’opposto;

– contrariamente a quanto può sembrare se si hanno in mente le posizioni espresse dalle forze politiche, non c’è nemmeno un legame chiaro tra orientamento politico e esitazione vaccinale. L’atteggiamento no vax può ritrovarsi sia tra persone di destra che di sinistra. Ciò su cui bisognerebbe riflettere è proprio il fatto che la frattura attraversa tutte le culture politiche, le religioni, le famiglie, le associazioni…

Quello che però qui interessa è sottolineare che questa è una buona occasione, da non lasciarsi scappare, per discutere delle nostre idee in fatto di libertà. Quali limiti alla libertà individuale? Fin dove può arrivare la mia possibilità di autodeterminazione, dove incontra una barriera che non sono legittimato a superare?

La domanda sul limes va posta perché in certi discorsi e sensibilità si avverte una sorta di fondamentalismo dei diritti (propri) che inevitabilmente finisce per interferire con i diritti altrui, allargando troppo la sfera di ciò che non può essere deciso mediante scelta politica a fine di tutela di altri diritti, come quello della vita. Qui non serve appellarsi alla costituzione; la costituzione non riconosce questo assolutismo del singolo diritto, è per una convivenza solidale e plurale dei diritti (P. Portinaro) e la politica ha il compito di ricercare la migliore mediazione possibile tra diritti in competizione tra di loro. Dobbiamo riconoscere inoltre che esistono non solo i miei diritti e i tuoi, ma dei beni comuni che vanno prodotti e tutelati, come nel nostro caso la salute. Proprio la pandemia sta dimostrando che la politica non è fatta solo di diritti (C. Galli). Ed era ora.

Detto questo, è opportuno essere consapevoli che sta emergendo anche un altro problema di fondo, di cui si discuterà a lungo, di cui si dovrà discutere a lungo.

La fragilità, oggi più evidente, del sistema sociale in cui viviamo tende a moltiplicare le situazioni di emergenza la cui gestione implica una forte complessità scientifico-tecnica oltre che politica (adesso il Covid, subito dopo il cambiamento climatico e la transizione verde), in cui gli stati intervengono, e non potrebbero non farlo, per garantire la vita biologica. Il potere tende perciò a legittimarsi sempre più in termini di difesa della sicurezza e della salute ed ha nuovi strumenti per farlo. È quella che alcuni chiamano biopolitica (M. Foucault).

Oggi le tecnologie digitali consentono inoltre un controllo informativo senza precedenti sulla vita personale (cfr. per fare un esempio: Google maps e i suoi rapporti mensili sui nostri spostamenti). Fino a che punto possiamo spingerci in questa direzione? Quali controlli è necessario attivare, quali rifiutare?

Quello che dovremo chiederci è se esigenze di sicurezza e salute non adeguatamente contemperate da altre ragionevoli considerazioni non finiscano per produrre un ipertrofico controllo globale delle nostre vite, rischioso e difficile da sopportare.

Senza con questo voler scomodare discorsi apocalittici alla Orwell (“1984”), che oggi appaiono fuori luogo nel nostro contesto politico. Le politiche anti-pandemiche hanno un fondamento razionale che tutti possiamo intendere, ma ciò non elimina del tutto il loro carattere autoritario, dal momento in cui disciplinano il corpo (L. Violante). Le dobbiamo accettare? Certo che sì, ma senza smettere di interrogarci sul senso e i limiti di politiche di questo genere, oggi e in prospettiva.

Le domande qui sono: quanta libertà siamo disponibili a sacrificare in nome della sicurezza e della salute? Qual è la soglia di tollerabilità dei limiti posti alle nostre vite? O viceversa, quanta insicurezza, quante minacce alla salute siamo disponibili a sopportare in nome della libertà?

Queste sono le domande che dovremo porci in forme meno irragionevoli di quanto non avvenga nelle piazze oggi e anche purtroppo nelle parole di intellettuali che qualche volta sembrano aver smarrito il senso delle proporzioni, scambiando la questione primaria (la pandemia da sconfiggere) con quelle che in questo frangente sono secondarie, di cui dovremo essere consapevoli, ma che pongono temi di lungo periodo, non risolvibili con poco sensate e sproporzionate lotte al certificato verde.

La questione in definitiva è quella della difesa dei valori fondamentali della democrazia in situazioni di emergenza e di fronte al progredire del controllo digitale delle persone; quella dei limiti da porre ai grandi poteri digitali senza che essi cessino di essere utili a una comunità che oggi non può più farne a meno.

Il rapporto con la scienza e le competenze

Il rapporto con la scienza era in questione ben prima del Covid. “Il minimo che si possa dire è che il virus non ci ha sorpreso nel mezzo di un Idilio con lo spirito scientifico” (M. Foessel). Il nostro atteggiamento nei suoi confronti era un misto di fascinazione e di scetticismo. Circolavano molte idee, pratiche e teorie che potremmo qualificare come pseudoscientifiche, in ogni caso diverse da quelle sostenute dagli scienziati; e il numero di coloro che vi facevano ricorso era in crescita. Da molti queste idee venivano considerate come plausibili e per lo più accettate come non alternative alle affermazioni scientifiche, qualcosa di cui si parlava tra il serio e il faceto, un po’ per gioco, un po’ credendoci per davvero: “ci sono troppe cose nell’universo per pensare che la scienza possa comprenderle tutte…”, “chissà mai che non vi siano realtà, energie, ecc. che la scienza non vede, ma che influenzano le nostre vite…” molti pensavano, e non necessariamente a torto. Si poteva perciò credere nell’una e nelle altre; un po’ di scienza e un po’ di oriente…; un po’ di antibiotici e un po’ di meditazione…

La pandemia ha fatto precipitare certi atteggiamenti scettici nei confronti della scienza e ha solidificato alcune opinioni poco fondate. Alcune idee più o meno bizzarre sono improvvisamente diventate certezze. C’è stata un progressiva radicalizzazione delle posizioni: qualcuno ha creduto opportuno affidarsi alla scienza e perfino troppo, qualcun altro ha deciso che era giunto il momento di non credervi per nulla.

Da una parte alcuni hanno finito per credere in idee e teorie che non stanno letteralmente “né in cielo né in terra”, sul modello dei cultori del c.d. “terra piattismo”. Il complottismo è sembrato ad alcuni attendibile, anche in ambienti religiosi (un esempio è mons. Viganò e i suoi seguaci, Aldo Maria Valli, ecc.). Ha trovato una certa diffusione cioè l’idea che esista un sistema mondiale di controllo, di cui tutti gli scienziati (“a parte i miei…”) e tutti i governi sono parte, che cerca di imporre un progetto organico di trasformazione del mondo per dominarlo meglio, magari eliminando un po’ di gente… Come su un certo numero di temi era già avvenuto in precedenza (dalle torri gemelle all’andata dell’uomo sulla Luna, per non dire di questioni più serie che riguardano gli orientamenti politici), anche in relazione alla pandemia si sviluppano minoranze che manifestano un “atteggiamento paranoide”, caratterizzate cioè da “accesa esagerazione, sospettosità e fantasia cospiratoria” (R. Hofstadter).

Di fronte a queste letture, chi è consapevole di quanto in realtà i poteri che governano il mondo siano in dura competizione tra di loro, quanto faticano a mettersi d’accordo anche quando l’evidenza dice che sarebbe necessario, si sente quasi tentato di dire “magari fosse così”, perché se un sistema del genere sussistesse, potremmo anche disporre di una delle condizioni necessarie per affrontare le grandi questioni che minacciano il futuro dell’umanità.

Siamo così arrivati al punto che, con alcune persone e gruppi socialmente attivi, “l’uso della razionalità e la logica generalmente condivisa falliscono. Questo accade perché costoro destituiscono di valore i numeri, i nessi logici e le affermazioni scientifiche senza badare ad alcuna evidenza empirica ma sulla base di un mero principio di diffidenza” (M. Revelli). Ora, se si sostiene che tutti i dati sono falsificati e che tutte le autorità mediche e scientifiche non sono credibili è ben difficile sperare di poter discutere con il necessario equilibrio al fine di produrre qualche intesa ragionevole. Questo è uno dei problemi che abbiamo oggi e con cui dovremo fare i conti a lungo.

Dall’altra parte c’è stato un interesse rinnovato per la scienza, e questa avrebbe potuto essere una insperata occasione di socializzazione dei cittadini all’approccio scientifico. Di fronte a una questione di vita e di morte in noi si è rapidamente oscurato il principio populista dell’ “uno vale uno”. La grande maggioranza di noi cerca persone competenti; la gran parte è alla ricerca di medici e scienziati preparati. La crisi del Covid ha reso perciò moltissime persone estremamente interessate a quello che gli scienziati hanno da dire. “Tutto ciò che conta è stato influenzato dalla scienza” (Joannidis, epidemiologo, Stanford). E perciò… tutti incollati davanti alla tv, a sentire virologi, pneumologi, epidemiologi, ecc. Noi, quasi tutte persone che non avevano mai dovuto confrontarsi con le logiche del metodo scientifico.

La scienza, o per meglio dire gli scienziati, sui media come si sono comportati? Come sono andate le cose da questo punto di vista?

Da un lato bene: la scienza, passata l’impasse iniziale, ha reagito sfornando vaccini con un buon livello di efficacia, dagli effetti collaterali contenuti, almeno per quanto ne sappiamo oggi, e li ha resi disponibili a prezzi ragionevoli (nei paesi ricchi). Per non fare gli ingenui diciamo pure che protagonista di tutto ciò è stata Big Pharma, perché è inutile sognare un disinteresse che non c’è e, sia pure a denti stretti, è il caso di riconoscere che dal “magna, magna” delle corporations, può uscire anche qualche soluzione. Così va il mondo.

Dall’altro, in termini di comunicazione pubblica, male: il carrozzone mediatico, come di consueto non è stato all’altezza di una società che ha bisogno di una opinione pubblica seriamente informata.

I media hanno trattato la crisi in modo nevrotico, ossessivo, inseguendo ogni “variante” in forme tali da dare quasi l’impressione che ci fosse un godimento nel parlare della loro “maggiore virulenza”, dando spazio esagerato a vicende marginali, sovraesponendo posizioni nella società poco presenti, dando importanza a domande irrilevanti, confondendo le priorità, seminando ansia e incertezza.

Ricercatori e scienziati abituati a starsene chiusi nei loro laboratori, totalmente privi di competenze comunicative, dalla sera alla mattina si sono trovati proiettati sugli schermi di tutto il mondo. Alcuni sono diventati delle star, la competizione tra di loro è stata accesa (anche per questioni legate al modo in cui la ricerca è finanziata…), qualcuno ha fatto carriera, altri sono stati bruciati. È partito una specie di circo mediatico-virologico, nel quale i dibattiti e i dissensi scientifici, normali tra scienziati, sono stati direttamente proiettati sugli schermi e dati in pasto a persone del tutto digiune del metodo scientifico.

Dice Etienne Klein (fisico e storico delle scienze): “Abbiamo avuto un’opportunità quasi storica per spiegare al grande pubblico, in tempo reale, giorno dopo giorno, i metodi scientifici (…) Anziché cogliere tale occasione, abbiamo preferito mettere in scena un’interminabile fiera di personalità dotate di un ego che spesso ha travalicato ogni misura”. E Joannidis aggiunge: “Eravamo tutti noi, un conglomerato che non ha nome e non ha volto: una rete e un disordine di prove a metà; media frenetici e di parte che promuovono il giornalismo di incompetenti paracadutati in giro e a copertura del branco; la proliferazione dei social media pseudonimi ed eponimi che hanno portato anche scienziati seri a diventare avatar selvaggi di se stessi, sputando enormi quantità di sciocchezze e sciocchezze; aziende industriali e tecnologiche scarsamente regolamentate che mostrano la loro intelligenza e il loro potere di marketing; e gente comune afflitta dalla crisi prolungata. Tutti nuotano in un misto di alcune buone intenzioni, alcune idee eccellenti e alcuni splendidi successi scientifici, ma anche di conflitti, polarizzazione politica, paura, panico, odio, divisioni, notizie false, censura, disuguaglianze, razzismo e malattie sociali croniche”.

Si poteva fare meglio, si dovrà fare meglio. Dovremo riconsiderare il nostro rapporto con la scienza, comprendere meglio i suo i modi di procedere; dovremo riconciliarci con essa, senza assolutizzarla, ma anche senza sottovalutarla. Qui i processi formativi scolastici potrebbero essere di vitale importanza, se finalmente si uscisse dal nozionismo…

Riprendo qui l’idea della pandemia come metafora. Per dire che quello di una saggia e equilibrata fiducia nella scienza è una questione decisiva per affrontare anche il tema del climate change. Tutte le nostre previsioni, la scoperta stessa del problema, dipendono in ultima analisi non da opinioni e impressioni, ma da analisi di tipo scientifico estremamente sofisticate.

E se domani, come avviene oggi per il virus e i vaccini, cessassimo di fidarci delle diagnosi degli scienziati climatici? Se domani ci fossero ragioni per rendercele meno appetibili? Cosa succederà quando scopriremo che la transizione verde non sarà “un pranza di gala…”? Che il cambiamento sarà costoso perché non si tratta solo di costruire il nuovo, ma anche di smantellare il vecchio e ciò comporterà lasciare dietro di noi tanti cadaveri del vecchio modo di produrre? Cosa avverrà quando comprenderemo che non a una semplice transizione verde siamo chiamati, ma a una conversione verde, in molti sensi? Basterebbe ricordare quanto avvenuto in Francia con i gillet gialli, quando un limitato aumento del costo del carburante (era energia fossile, o no?) ha scatenato rivolte che sono proseguite per settimane.

Possiamo pensare a un dibattito pubblico migliore di quello cui abbiamo assistito, dire ai giornalisti e agli scienziati che abbiamo diritto ad avercelo e che è vitale porlo in essere, immaginare una versione più partecipata e meno autoritaria della gestione della salute pubblica, dire che abbiamo bisogno di comunicazioni che aiutano meglio il formarsi di una opinione pubblica consapevole delle scelte e delle sfide. Penso che “passata la nottata” di questo dovremo discutere ancora molto, per prepararci per tempo alla prossima nottata.

In ogni caso oggi possiamo dire che:

– non dovremmo farci ingannare da quello cui abbiamo assistito: la scienza non ha verità assolute, è fallibile (la fallibilità è un asse portante del metodo), ma essa non è una mera questione di opinioni che si confrontano senza mai giungere a un accordo. La scienza non è una credenza come tante altre, non sostiene delle mere opinioni senza verifica;

– abbiamo capito che gli scienziati non hanno sempre la stessa idea. Dovremmo imparare a non scandalizzarci di questo. È normale che sia così. Le controversie sono necessarie al progresso della scienza (senza con questo giustificare certi modi e toni…). La scienza procede per competizione e cooperazione. Il caso dei vaccini è fatto proprio di questo, di competizione tra imprese e di collaborazione sotto traccia tra ricercatori;

– gli scienziati hanno gli stessi difetti di tutti, devono trovare finanziamenti per il loro lavoro e magari coprono interessi che amerebbero non dover coprire, hanno il loro ego e i loro narcisismi (spesso smisurati), ma il lavoro collettivo che pongono in essere conduce prima o poi a individuare errori e falsità. Se così non fosse il nostro mondo sarebbe ben diverso da quello che è.

– la scienza procede in sostanza per prove ed errori, le acquisizioni cui giunge non sono assolute, sono sempre falsificabili, non vanno assolutizzate, ma non vanno nemmeno considerate come infondate e, fino a prova contraria, sono la bussola migliore di cui disponiamo.

Perciò, farsi guidare da suggestioni, opinioni, emozioni, teorie non falsificabili (K. Popper) in questioni come il Covid e il cambiamento climatico non è una buona strada. Come dice ancora Joanidis, di fronte a problemi di questa natura, “la scienza è la cosa migliore che può capitare agli esseri umani (una delle migliori, direi io), a condizione che sia tollerante e tollerata (e “compresa” aggiungerei sempre io).

E, aggiungerei ancora, a condizione di non pensare che solo gli scienziati possono parlare delle “questioni di rilevanza pubblica”, come qualche volta siamo stati indotti a pensare di questi tempi e come gli stessi politici hanno voluto farci credere per occultare le loro responsabilità decisionali. Contrariamente a quanto riteneva Platone non è infatti un comitato di sapienti, oggi si direbbe di scienziati, che deve governare la cosa pubblica. Le decisioni politiche devono alimentarsi di conoscenze e di competenze, ma anche della libera circolazione di idee nello spazio pubblico. Perché la società è un sistema complesso, vivente, che non può essere compreso solo da un punto di vista tecnico scientifico.

La fiducia, un bene scarso

Abbiamo già capito che oggi c’è una importante questione di fiducia o, per meglio dire, di mancanza di fiducia.

Perché quando ero ragazzino nessuno protestava contro i vaccini e io venni portato a farli senza discussioni, anche se con qualche tremore di mia madre, se ricordo bene? La contrarietà ai vaccini e al certificato verde (a quest’ultimo in particolare) trova in alcuni giustificazione nell’idea che dello stato non ci si debba fidare mai, o quasi. È una crisi di fiducia nell’autorità pubblica, che viene da lontano.

Le nostre società hanno un grave problema di carenza di fiducia e oggi, guardandoci intorno nella desolazione della sfiducia semi-generalizzata, ci rendiamo più facilmente conto che si fa presto a dilapidare questa risorsa essenziale per la coesione sociale. Intere macchine mediatiche, sempre più affinate, sono state concepite a questo fine. La produzione organizzata della sfiducia è diventata un aspetto fondamentale di certe strategie politiche. Per alcuni soggetti essa è una risorsa sulla quale si spera di costruire consenso. Ma ciò che per alcuni può costituire una risorsa, per la grande maggioranza della popolazione è uno svantaggio. Perché senza fiducia le società non possono prosperare, stare in piedi, maturare. Anche se, mi rendo conto, possono sembrare parole al vento voglio dire che dobbiamo stare attenti a che la soglia minima di fiducia necessaria non venga oltrepassata.

Come potremo domani fidarci quando dovremo sacrificare qualcosa per il nostro futuro sulla terra se abbiamo dissipato ogni fiducia in ciò che dicono gli scienziati e in ciò che indicano i governanti?

Provo a spiegarmi con un esempio di questi giorni. Si sono appena conclusi il G20 di Roma e il COP 26 di Glasgow, entrambi incontri dedicati alla questione ecologica, dai risultati incerti e ancora al di sotto delle minacce cui andiamo incontro. Penso tuttavia che dovremmo evitare di leggere con atteggiamento di sfiduciata trascuratezza quanto lì avvenuto, assecondando una certa tendenza dei mezzi di comunicazione a liquidare tutto con giudizi tranchant, senza mai entrare nel merito delle singole decisioni prese, cosa che indurrebbe a far lavorare maggiormente giornalisti poco inclini a farlo e poco capaci di comprendere il merito di quelle questioni. Dovremmo invece cercare di informarci puntigliosamente per capire sul serio cosa si è deciso o non deciso e per quali motivi.

Una cosa è dire che non basta, che non ci siamo ancora, che le direzioni giuste sarebbero questa o quest’altra; un’altra è dire che non si fa e non si decide niente, seminando l’idea che da questi incontri e dalla decisione politica non c’è nulla da attendersi. Perché, chi altri dovrebbe decidere?

Per affrontare problemi planetari è certo necessaria l’azione di ciascuno di noi, è fondamentale promuovere dal basso esperienze “verdi”, è essenziale mobilitarsi per diffondere la coscienza ecologica e indurre a decisioni congruenti. Ma occorrono anche soluzioni globali, concordate a livello politico, fondate su una chiara individuazione di un bene comune globale. Se ciò che l’azione giustamente critica dovesse essere capace di produrre solamente delegittimazione delle istituzioni e delle occasioni in cui si decide, o si dovrebbe decidere, che cosa ci rimarrà alla fine nelle mani?

Abbiamo contrapposto populisticamente la vita alle istituzioni, non capendo che senza istituzioni la vita deperisce. Di fronte alle sfide attuali è necessari criticare, anche duramente, non demolire.

Al centro delle critiche attuali si pongono “i politici”. E i politici hanno grosse responsabilità, certamente, oggi maggiori di ieri. Ma il problema non sono solo i politici, riguarda le classi dirigenti intese in senso ampio. E riguarda i popoli. Pensare che da un lato ci siano i politici che pensano solo a se stessi e ai loro interessi, poco orientati al bene comune e dall’altro popoli che ben riconoscono il bene comune e saprebbero come perseguirlo se non fossero ostacolati dai politici è ingenuo. Se al COP 26 non si è deciso ciò che era necessario non è perché i politici non hanno tenuto presente gli interessi dei loro popoli, ma perché hanno tenuto troppo presenti gli interessi dei loro singoli popoli. Le responsabilità sono più diffuse di quanto di solito la propaganda antipolitica non faccia credere. I movimenti green non dovrebbero commettere l’errore di ritenere che tutta la responsabilità sia dei politici, legittimando tra la gente una lettura deresponsabilizzante del problema.

Prendiamo un altro esempio: il tema dell’immigrazione. Se oggi un personaggio inqualificabile come Lukashcenko tiene sotto scacco l’Europa, ciò dipende dal fatto che chi dirige l’Unione Europea non riesce a mettersi d’accordo su di una risposta decisa e umanitaria o dal fatto che i governi degli stati europei sono timorosi perché sanno che una risposta seria e umanitaria troverebbe le loro popolazioni contrarie? O, per fare un altro esempio, se l’allora ministro dell’interno Minniti, in presenza di folti gruppi di migranti che stazionavano sulla costa africana pronti a partire per il nostro paese, stipulò discutibili accordi con i libici, poco attenti ai diritti umani per non dire altro, fu perché il governo di cui lui faceva parte era poco incline a farsi carico della questione umanitaria o perché sapeva che se avesse perseguito strade diverse e più umane non avrebbe avuto dietro a sé la popolazione e cioè noi stessi?

Bisogna uscire da una visione ingenua e populista della politica e riconoscere le responsabilità che tutti abbiamo, sia pure in proporzioni diverse, ovviamente.

La politica. Un cenno su Europa, stati nazionali, regioni

Quanto detto fin qui dice abbastanza chiaramente come la pandemia abbia prodotto non solo effetti sociali e culturali, ma anche politici. Tendenze che erano affiorate negli anni precedenti si sono inabissate, mentre altre che erano solo latenti sono emerse. Gli aspetti di cui si dovrebbe parlare sono quasi infiniti. Qui mi limiterò a indicarne uno: quello del riallineamento avvenuto nel rapporto tra regioni, stati nazionali e Unione europea.

Il magistero del Covid ha costretto l’Unione europea a ragionare in termini di solidarietà europee, finalmente. E i risultati ci sono stati, anche se in forma provvisoria e emergenziale: il Next Generation Eu, con tutti i rilevanti sostegni che esso comporta, in particolare per l’Italia, il paese che è apparso inizialmente più colpito dalla pandemia. Per nostra fortuna, sia detto per inciso, i conti si sono fatti all’inizio della pandemia; se si facessero adesso, considerato il miglioramento dei parametri di salute del nostro paese, forse non troveremmo altrettanta generosità nei nostri confronti.

E ciò ha modificato il nostro atteggiamento: abbiamo capito che non si può fare a meno dell’Europa, che non si può andare contro l’Europa, che è qui che si giocherà il nostro futuro; che proprio questioni come quella ecologica richiedono ambiziosi piani sovranazionali.

L’Europa, di cui alcuni di noi diffidavano, perché lontana, burocratizzata, estranea, ecc. è ridiventata amica. Gli indici di gradimento rilevati dai sondaggi hanno ricominciato a salire. Chi non lo comprende è in difficoltà. Le posizioni “sovraniste” ne sono uscite indebolite.

Gli stati nazionali sono allora scomparsi? No, al contrario, essi sono emersi in tutto il loro ruolo. Sono gli stati nazionali che discutono a livello europeo, che fanno gli accordi o li bloccano. E, soprattutto, sono gli stati a gestire i fondi del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza). Lo fanno però per restare in Europa, non per uscirne, lo fanno per sfruttare tutto ciò che il rapporto con gli altri stati nel quadro europeo può offrire in termini di risorse e di garanzie di stabilità per il futuro, non per rivendicare la propria autonomia dalle ingerenze della Commissione. Perché sanno che da soli non ce la farebbero.

Tutto ciò ha posto in una più congrua prospettiva il ruolo delle regioni e delle comunità locali. I piagnistei di questi anni sulle autonomie regionali, “paroni a casa nostra” ecc., potranno restare, ma non hanno più alcuna seria prospettiva. Per un certo numero di anni almeno, probabilmente di più, le decisioni che contano verranno prese “ai piani superiori” e si dovrà prenderne atto.

Il covid ha cioè messo una pietra tombale sull’idea che il futuro dell’Europa sia fatto di regioni, comunità locali e che gli stati siano finiti (P. Feltrin). Queste non sono scomparse, ma devono ritornare a ragionare in termini non localistici; devono interagire con le politiche nazionali; porsi problemi di carattere nazionale e globale; comprendere che il loro ruolo si gioca soprattutto nell’adattare alle proprie specificità le politiche globali e nello sperimentare soluzioni nuove; non limitarsi a rivendicare autonomia. Perché non l’avranno.

Relazione “Nessuno è sfuggito al Covid!” in pdf