Narrare la pandemia

In questa crisi dobbiamo agire nella conoscenza esplicita del nostro non sapere

Jürghen Habermas, in Le monde, 10.04.2020

“Bisogna convivere…” “Il virus sarà nostro fedele compagno a lungo…” Sono frasi che si sentono sempre più spesso. In sostanza, si va verso un armistizio. Ma, scusate, non era una battaglia da vincere?
Siamo nel 2022, anno terzo della pandemia. Regna una certa confusione, non solo operativa. La stanchezza è il sentimento dominante e, con essa, l’affacciarsi di un desiderio crescente di prendere le distanze dalla prospettiva che questo maledetto virus possa continuare a determinare le nostre vite ancora a lungo.
Abbiamo un disperato bisogno di buoni rimedi, ma avvertiamo anche la necessità di farci una idea di come si affrontano crisi di questa portata. Apparentemente i mezzi di comunicazione sembrano occuparsi di questioni sanitarie, non per nulla la medicina scientifica vi fa apparentemente da padrona, ma sotto traccia essi formano l’opinione pubblica e lo fanno provando a diffondere delle “rappresentazioni sociali della pandemia”, delle immagini cioè, dei modi per trattare la crisi. Tanto che si può già abbozzare una piccola storia delle narrazioni con cui abbiamo maneggiato il Covid.
Il 2020, anno primo della pandemia, è stato quello dello sconcerto e della paura, degli inevitabili esorcismi (“Andrà tutto bene!”) e dell’attesa messianica della salvezza che Madonna Scienza avrebbe a un certo punto portato. I verbi “predicati” – è proprio il caso di dirlo – erano all’indicativo futuro e all’imperativo: “E stattene a casa, aspetta e vedrai che prima o poi risorgeremo”.
Il 2021, anno secondo, è stato quello della redenzione in atto, del Vaccino che salva e risolve, che sconfigge il virus, come San Giorgio. I messaggi sono all’indicativo presente e ancora all’imperativo: “Ce l’abbiamo fatta. Vaccìnati! Torniamo a vivere”. Gli scienziati sono gli ultimi sacerdoti, i salotti televisivi le chiese in cui si è celebrata la nuova narrazione, quella della resurrezione in atto. La “Scienza” formattata dai media vi fa la sua parte, nella versione un po’ gretta di chi si ritiene capace di produrre “miracoli”, di dire verità e dare certezze, come la gente del resto chiedeva. L’orizzonte pare appianarsi, la vita riprendere.
Poi, inaspettatamente le cose si complicano, arriva la “variante con il turbo”, quella a cui “nessuno può sfuggire” (OMS). Si riprende così a “dare i numeri” e a preoccuparsi per i numeri (ovviamente quotidiani… sennò di che si parlerebbe?). Ci sono meno morti, ma il rischio caos è ancora grande e… “non bisogna abbassare la guardia”.
È l’anno terzo della pandemia. Prima era la Delta, poi venne Omicron… ora omicron se ne fugge (forse), ma tornerà la Delta? Ci saranno congiunzioni innaturali tra Omicron e Delta? O verranno – Dio non voglia! – Rho, Sigma, Tau…? Gli scienziati tornano ad essere incerti delle loro idee, non solo hanno idee diverse, come già negli anni precedenti, un fatto piuttosto ovvio, ma sono finalmente (!) più restii a usare l’indicativo, preferiscono il congiuntivo e il condizionale, usano poco il futuro. Non hanno più parole di salvezza certa. Ammettono di quando in quando i loro limiti.
Il circuito mediatico-virologico però tenta, e alcuni lo fanno con particolare impegno, un’altra strada narrativa: la ricerca di un colpevole. Ci si impegna dunque in una sorta di costruzione sociale del nemico. Emerge la nuova figura del dramma: il no-vax, un acronimo che non disdegna di ridurre la persona a una sua singola scelta, nella pretesa di riassumerla tutta, stigmatizzandola con durezza. Questi diventa la spiegazione primaria delle difficoltà incontrate – non è il virus in sé… Quasi fosse possibile immaginare un mondo in cui tutti accettano di vaccinarsi, possono farlo davvero e a ripetizione – otto miliardi di persone! Quasi non fosse una resistenza di cui prendere atto, da contenere e da gestire con intelligenza, ma un nemico da cancellare, con le buone o con le cattive. La sovraesposizione mediatica del nuovo soggetto, naturalmente, produce i suoi effetti e le piazze vedono emergere nuovi protagonisti, di cui si sarebbe volentieri fatto a meno.
Che occasione ghiotta per la parte più militante della medicina scientifica per regolare i conti con l’universo in espansione delle medicine naturali e “alternative”, delle cure non basate “sulle prove di efficacia”, che non ricorrono agli studi randomizzati; quelle sapienze curiose, spesso ingenue e piene di errori, qualche volta gravi ma in buona compagnia, che però contribuiscono a migliorare la vita di molti o, se non a migliorarla, a continuarla, e che per fortuna riducono la domanda di cui la medicina scientifica si deve occupare senza riuscirci. Questo genere di medici militanti sembra comportarsi come i loro colleghi arrivati in Africa sulla scia delle conquiste coloniali: “gli stregoni si fanno fuori, non si tenta di farli collaborare!”. Peccato che Ernesto De Martino non sia più tra noi a dire la sua.

Nella narrazione attuale convivono perciò due racconti, quello più militante che spera di riportare l’ordine cancellando il nemico e quello che più seriamente si interroga sulla complessità delle cose, compresa quella nascosta nella testa dei non vaccinati, sulla difficoltà del prevedere, sui limiti della razionalità scientifica; che non ha soluzioni definitive, ma solo parziali, che dialoga con l’incertezza e adegua l’agire alle azioni e retroazioni sull’ambiente.

Il vecchio Habermas, con la consueta lungimiranza, lo aveva detto già nell’aprile del 2020, ad epidemia appena iniziata: “agire nella conoscenza esplicita del nostro non sapere”.
Ma nell’anno secondo della pandemia ci eravamo illusi che il futuro fosse prevedibile e che ci potevamo credere. Ci rendiamo conto ora che la narrazione consolatoria su cui abbiamo vissuto l’anno precedente ha bisogno di essere riformulata. I giornali di questi tempi sono pieni di tentativi di costruire nuovi scenari: dalla pandemia all’epidemia, da questa all’endemia; sconfiggere è diventato convivere, non ammalarsi è diventato non morire (il che non è poco peraltro); quando finirà è diventato come si vivrà, col Covid. Prevalgono finalmente le forme linguistiche dell’incerto e dell’imprevedibile. Lasciando però dietro di sé nuovo sconcerto e preoccupazioni che danno vita a un nuovo ciclo di rassicurazioni e tranquillizzazioni, in un sequela di chiacchiere che sembra non avere mai fine. Dopo due anni quasi non si riesce a parlare d’altro.
Per chiarezza, quello che interessa qui non è indicare colpevoli o sottolineare errori. Sarebbe troppo facile. Chi ha dovuto assumere la responsabilità di decidere si è trovato nella condizione di dover ostentare sicurezza, sapendo perfettamente che “non si sapeva” e che tuttavia si doveva agire. Facile per chi è rimasto alla finestra rilevare gli sbagli, o dire in modi più sofisticati, magari contemporaneamente, che siamo ormai al dispiegamento incontrastato della “biopolitica” (il potere si dà un gran da fare per sottomettere i cittadini) e alla necropolitica (il potere non fa nulla per impedire le morti evitabili; Draghi come Bolsonaro…).
Ciò a cui siamo interessati qui è sottolineare quanta parte di incertezza vi sia nell’agire umano e nelle decisioni di chi governa e come, proprio per questo, vi sia oggi un estremo bisogno non solo di soluzioni operative, ma di una prospettiva e cioè di una narrazione plausibile non di quello che avverrà (nessuno lo sa), ma di come affrontare ciò che verrà nella sua incertezza solo parzialmente dominabile.
Ciò che interessa è porre in evidenza il fatto che quando certi equilibri vengono scossi poi rimetterli in sesto rientra forse ancora nelle possibilità umane – a questo dobbiamo crederci fino a prova contraria – ma è maledettamente complesso, avviene in un quadro di grandi e diffuse indeterminatezze, ha bisogno di una “narrazione” credibile di come si affrontano le difficoltà, di quali “sacrifici” (la parola impronunciabile…) si devono sopportare e per quali ragioni. Perché da questa crisi dobbiamo uscire avendo imparato qualcosa!
Abbiamo bisogno di comprendere allora che la costruzione di questa narrazione non può essere lasciata solo alla scienza, per quanto importante essa sia nel delineare scenari e nell’aiutare a migliorare la condizione umana, ma ha bisogno di mettere in campo altre energie, culturali e religiose, di religioni che abbiano ancora la consapevolezza del proprio compito almeno, se ne sono rimaste.
A due anni ormai dall’inizio della pandemia, abbiamo in sostanza la sensazione che molte domande rimangano senza risposta, che ci si dovrà lavorare ancora per costruirle e che esse non avranno probabilmente la forma della Verità granitica. Il vaccino che salva si rivela per quello che è: una iperbole, frutto del tentativo di volgarizzare un linguaggio scientifico che mai si esprimerebbe in questo modo, ma che ha creduto di doverlo fare per corrispondere a sollecitazioni provenienti da un mondo della comunicazione il quale chiedeva non tanto di sentire ciò che lo studioso sa o non sa, ma di poter impartire una prospettiva di salvezza. E i media lo fanno perché così pensano di farsi interpreti di una domanda di certezze che essi avvertono, probabilmente con ragione, di intravedere tra la gente.
La narrazione salvifica che ci è stata impartita in questi mesi non è solo responsabilità di scienziati ancora inclini a sicurezze illuministiche ormai datate e a giornalisti desiderosi di allargare il proprio pubblico. Essa è anche una risposta a una società che tende a negare la malattia e la morte, che non è abituata a vivere l’esperienza dell’incertezza. La narrazione salvifica del vaccino da una parte e la sua demonizzazione dall’altra sembrano rispondere ad una medesima incapacità di affrontare il limite. Cosa che dovremo fare ora e sempre. È stata proprio la pandemia a ricordarcelo, se mai ve ne fosse stato bisogno.
Dovremo allora più probabilmente fare nuovamente i conti con la nostra condizione intesa nel suo senso più pieno, ontologico. Ritornare a chiederci non solo come risolvere, ma anche quale senso dobbiamo attribuire alle crisi che oggi e domani ci investiranno e come raccontarle in modo da non venirne schiacciati, subendole e basta. Capire che la scienza aiuta, qualche volta aiuta molto, ma non risolve miracolosamente; che essa è una “attività umana” (come direbbe Catalano), e perciò è capace di grandi conquiste, ma anche di grandi errori, che non è di essa la certezza, perché essa è imperfetta.
E, aggiungerei, grazie a Dio. Perché se lo fosse, perfetta intendo, allora sì nel giro di poco tempo saremmo dentro i paesaggi disegnati da George Orwell in “1984”.