IL PENSIERO DI FRANCESCO, BUONA POLITICA VS. POPULISMO

Per introdurre la riflessione sul pensiero di papa Francesco in materia politica è importante non dimenticare il tema della migliore politica e quello del populismo, che ritornano spesso negli interventi del pontefice: per alcuni aspetti sembrano il polo positivo e quello negativo del complesso mondo politico, almeno per quello che riguarda alcune situazioni che caratterizzano diverse democrazie nel mondo.

Partiamo dal primo polo, quello della buona politica, sono innegabili le sue radici aristoteliche-tomiste. Partiamo da Aristotele. Il suo pensiero in sintesi è: il fine (télos) di ogni persona come di ogni comunità politica è il bene (agathón) o, anche detto altrove, la felicità (eudaimonía). Questo doppio fine – felicità e bene – oppure, detto in altro modo, questo unico fine, medaglia con due facce (felicità e bene) può essere raggiunto da chi vive secondo ragione realizzando le virtù, prima di tutto la giustizia e l’amicizia. Quindi è felice e fa il bene chi è virtuoso, cioè chi è giusto, amicale nelle relazioni, onesto, prudente, si preoccupa del bene della città e cosi via.

La città (polis) è il luogo in cui la persona, che è relazionale (zoon politikon) si realizza, matura la sua felicità compiendo il bene. Tutta la maturità della persona, per Aristotele, è ricercata e vissuta nella città, che è indispensabile in quanto assume lo stesso fine (télos) della persona, bene o felicità che dir si voglia. La comunità è anche il luogo in cui la felicità viene condivisa e rafforzata con le felicità altrui. E’ in questi elementi la radice più profonda dello stretto rapporto tra etica personale ed etica politica, felicità del singolo e felicità dell’intera comunità.

Per cui chiedersi della bontà o cattiveria della realtà politica significa chiedersi cosa essa fa per il bene/felicità dei singoli membri, per la loro pienezza di vita. Sulla base di questo processo inscindibile – persona-virtù-bene/felicità-nella comunità – il discorso etico sulla politica deve rispondere a domande impegnative quali: come vivere le virtù nella vita politica? Che cos’è, soprattutto, la virtù della giustizia? Come promuovere bene comune e solidarietà? Che rapporto intercorre tra il bene/felicità personale e quello politico? Qual è il genere migliore di educazione da impartire? Quali i ruoli e quali prassi di potere garantiscono il bene/felicità? Qual è il ruolo dei media nel creare e garantire il bene/felicità?

Nella visione aristotelica la finalità non si raggiunge senza educazione (paideía), che è lo strumento vitale per trasmettere e far acquisire le virtù. La persona diventa virtuosa solo se vive in una città virtuosa, è educata bene e comprende che ogni educazione è teorica e pratica, allo stesso tempo.

In questa scia Papa Francesco ricorda spesso che la persona è un essere relazionale, politikòn, come afferma Aristotele. Scrive, infatti, che “la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri” (Laudato si’, 70). La persona umana ha quindi, anche nel magistero di Francesco, una struttura a quadrilatero, come è definita da Giorgio La Pira, i cui vertici sono: se stesso, gli altri, Dio e la natura. E “tutto è in relazione”, dice il papa (LS, 70).

Se la persona è così descritta, si comprende bene come il passaggio successivo sia quello educativo, cioè un’azione pastorale che “deve mostrare ancora meglio che la relazione con il nostro Padre esige e incoraggia una comunione che guarisca, promuova e rafforzi i legami interpersonali“ (LS, 67) e che porti a non lavarsi le mani come Pilato ma “a coinvolgerci nella politica, a lavorare per il bene comune” (7.6.2013).

Tuttavia Francesco è ben concio che i politici, un po’ ovunque, hanno tradito il loro compito. Se i mali più grandi del mondo sono “Pobreza, corrupción, trata de personas(ovvero: povertà, corruzione e tratta di persone; 9.11.2015), va riconosciuto che i politici sono coloro che spesso di dimenticano dei poveri, adottano uno stile corrotto e lottano poco contro i traffici di persone. Il papa è anche amareggiato dal fatto che “persino chi apparentemente dispone di solide convinzioni dottrinali e spirituali, spesso cade in uno stile di vita che porta ad attaccarsi a sicurezze economiche, o a spazi di potere e di gloria umana che ci si procura in qualsiasi modo, invece di dare la vita per gli altri nella missione” (Evangelii gaudium, 80).

Riguardo al secondo polo, quello del populismo, papa Francesco lo definisce una “polarità della società divisa” (Fratelli tutti, 156). Essendo la parola del momento, come spesso succede per ciò che è di moda, essa viene usata a proposito e a sproposito, con poche possibilità di capire e discutere. Una malattia che è ormai globale. Sono populisti, con diversi atteggiamenti, strategie e finalità, leader quali Trump, Bolsonaro, Erdogan, Salvini, Meloni, Le Pen, Casaleggio, Grillo, Renzi, Di Maio, Chavez, Maduro, Morales, Orban, Berlusconi, Lukasenka. Non sono assolutamente uguali tra loro – per tratti umani, etici e politici – ma hanno diverse cose in comune (The Guardian on line, The new populism[1]). Al di là dei nomi del momento, soprattutto resta fermo il fatto che il populismo nuoccia tanto alle persone, quanto alla convivenza civile e agli stessi diritti umani. Con questo si deve evitare di farne una “chiave di lettura della realtà sociale” perché essa “contiene un altro punto debole: il fatto che ignora la legittimità della nozione di popolo. Il tentativo di far sparire dal linguaggio tale categoria potrebbe portare a eliminare la parola stessa “democrazia” (“governo del popolo”)” (Fratelli tutti, 157).

Ignoranza, mancanza di formazione, assenza di partecipazione ai processi democratici generano le diverse forme di populismo. Nel documento dei vescovi dell’America Latina, riuniti ad Aparecida, si legge con chiarezza: “Prendiamo atto che vari processi elettorali denotano un certo progresso democratico. Tuttavia, guardiamo con preoccupazione il rapido avanzamento di diverse forme di regressione autoritaria per via democratica, che sfociano in alcuni casi in regimi di orientamento neopopulista. Questo conferma che non basta una democrazia puramente formale, fondata sulla trasparenza dei processi elettorali, ma che è necessaria una democrazia partecipativa e sostenuta dalla promozione e dal rispetto dei diritti umani. Una democrazia senza valori come questi ricordati si trasforma facilmente in una dittatura e finisce col tradire il popolo”[2].

I rischi dell’assenza di principi morali, nei processi democratici, sono ben evidenziati in tutto magistero sociale cattolico, dalla Rerum novarum ad oggi, il brano seguente, a firma di Giovanni Paolo II, ne è una testimonianza: “Anche nei Paesi dove vigono forme di governo democratico non sempre questi diritti sono del tutto rispettati. Né ci si riferisce soltanto allo scandalo dell’aborto, ma anche a diversi aspetti di una crisi dei sistemi democratici, che talvolta sembra abbiano smarrito la capacità di decidere secondo il bene comune. Le domande che si levano dalla società a volte non sono esaminate secondo criteri di giustizia e di moralità, ma piuttosto secondo la forza elettorale o finanziaria dei gruppi che le sostengono. Simili deviazioni del costume politico col tempo generano sfiducia ed apatia con la conseguente diminuzione della partecipazione politica e dello spirito civico in seno alla popolazione, che si sente danneggiata e delusa. Ne risulta la crescente incapacità di inquadrare gli interessi particolari in una coerente visione del bene comune. Questo, infatti, non è la semplice somma degli interessi particolari, ma implica la loro valutazione e composizione fatta in base ad un’equilibrata gerarchia di valori e, in ultima analisi, ad un’esatta comprensione della dignità e dei diritti della persona” (Centesimus annus, 47).

Lo stesso tipo di rilievo, sulla perdita dei principi etici di riferimento, viene più volte richiamata riguardo al rapporto tra azione politica e libertà di mercato: “la Chiesa offre, come indispensabile orientamento ideale, la propria dottrina sociale, che — come si è detto — riconosce la positività del mercato e dell’impresa, ma indica, nello stesso tempo, la necessità che questi siano orientati verso il bene comune” (Centesimus annus, 43).Nella Fratelli tutti papa Francesco precisa: “Il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. Si tratta di un pensiero povero, ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette di fronte a qualunque sfida si presenti. Il neoliberismo riproduce sé stesso tale e quale, ricorrendo alla magica teoria del “traboccamento” o del “gocciolamento” – senza nominarla – come unica via per risolvere i problemi sociali. Non ci si accorge che il presunto traboccamento non risolve l’inequità, la quale è fonte di nuove forme di violenza che minacciano il tessuto sociale. Da una parte è indispensabile una politica economica attiva, orientata a «promuovere un’economia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale», perché sia possibile aumentare i posti di lavoro invece di ridurli. La speculazione finanziaria con il guadagno facile come scopo fondamentale continua a fare strage. D’altra parte, «senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare»” (Fratelli tutti, 168). Sono questi principi etici chiari e assimilati nella comunità cattolica, specie tra i pastori, gli educatori e gli operatori nell’ambito economico e finanziario?

Ma accanto alla carenza formativa, specie sui principi etici fondamentali, non va trascurato il peso determinante della ricerca del potere e dei vantaggi economici. Diversi pastori e fedeli cattolici non sembrano molto accettare e seguire la linea dettata dal nuovo papa. In tanti suoi interventi Francesco ha ricordato come spesso politici, imprenditori ed ecclesiastici trascurano i loro doveri per “coltivare il potere”. “Sui giornali — ha osservato il vescovo di Roma — noi leggiamo tante volte: è stato portato in tribunale quel politico che si è arricchito magicamente. È stato in tribunale, è stato portato in tribunale quel capo di azienda che magicamente si è arricchito, cioè sfruttando i suoi operai; si parla troppo di un prelato che si è arricchito troppo e ha lasciato il suo dovere pastorale per curare il suo potere”. Dunque, ci sono “i corrotti politici, i corrotti degli affari e i corrotti ecclesiastici”. E ce ne sono “dappertutto”[3].

L’insistenza su questi temi è un leit motiv dell’intero magistero sociale cattolico. Tanto per citare gli ultimi pontefici, su potere e denaro, si ricordi Paolo VI che fa riferimento a una “ricerca esclusiva dell’interesse e del potere” (Populorum progressio, 26). Giovanni Paolo II parla di ”brama esclusiva del profitto e sete del potere”, che nel panorama odierno sono “indissolubilmente uniti, sia che predomini l’uno o l’altro” (Sollicitudo rei socialis, 37). Benedetto XVI fa riferimento a “falsi dei [che, ndr], qualunque sia il nome, l’immagine o la forma che loro attribuiamo, sono quasi sempre collegati all’adorazione di tre realtà: i beni materiali, l’amore possessivo, il potere” (Incontro con i giovani a Sydney 18 luglio 2008). La stessa storia biblica – sappiamo bene – ha tanti riferimenti a chi abbandona la via di Dio per diventare schiavo del denaro e del potere. Lo ha detto così bene lo psicologo Kets De Vries: “il potere è un grande narcotico: dà vita, nutre, ci rende schiavi” [4].

Papa Francesco è ritornato sul tema del populismo diverse volte. Premetto che ha anche precisato il diverso modo di concepire il significato di popolo, in America Latina e qui in Europa: “dico “populismo” tra virgolette, perché voi sapete che questa parola, da parte mia, ho dovuto reimpararla in Europa, perché in America Latina ha un altro significato”, cioè più positiva perché ancorata al concetto di popolo”. Infatti altrove ha precisato: “oggi sono un po’ di moda i populismi, che non hanno niente a che vedere con ciò che è popolare. Popolare è la cultura del popolo, la cultura di ognuno dei vostri popoli che si esprime nell’arte, si esprime nella cultura, si esprime nella scienza del popolo, si esprime nella festa! Ogni popolo fa festa a suo modo. Questo è popolare. Ma il populismo è il contrario: è la chiusura di questo su un modello. Siamo chiusi, siamo noi soli. E quando siamo chiusi non si può andare avanti” (Incontro con i giovani, 6 ottobre 2018). Alla luce di queste parole risulta ancor più chiara la precisazione di Fratelli tutti: “Esiste infatti un malinteso. «Popolo non è una categoria logica, né è una categoria mistica, se la intendiamo nel senso che tutto quello che fa il popolo sia buono, o nel senso che il popolo sia una categoria angelicata. Ma no! È una categoria mitica […] Quando spieghi che cos’è un popolo usi categorie logiche perché lo devi spiegare: ci vogliono, certo. Ma non spieghi così il senso dell’appartenenza al popolo. La parola popolo ha qualcosa di più che non può essere spiegato in maniera logica. Essere parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e culturali. E questa non è una cosa automatica, anzi: è un processo lento, difficile… verso un progetto comune»” (Fratelli tutti, 158). E più avanti aggiunge: “la categoria di “popolo” è aperta. Un popolo vivo, dinamico e con un futuro è quello che rimane costantemente aperto a nuove sintesi assumendo in sé ciò che è diverso. Non lo fa negando sé stesso, ma piuttosto con la disposizione ad essere messo in movimento e in discussione, ad essere allargato, arricchito da altri, e in tal modo può evolversi” (Fratelli tutti, 160).

Chiariti questi problemi semantici papa Francesco ha contribuito, al dibattito sul populismo, con una chiarezza di giudizio etico, che non presenta ombra di dubbio: “Il populismo è cattivo e finisce male, come ci ha mostrato il secolo scorso, per me il concetto di populismo è sempre stato equivocabile, perché in Sudamerica ha un altro significato. Populismo significa usare il popolo, giusto? Pensi al 1933, dopo il fallimento della Repubblica di Weimar. La Germania era disperata, indebolita dalla crisi del ’29, e allora arrivò quest’uomo che disse: io posso, io posso, io posso! Si chiamava Adolf. È andata così. Ha convinto il popolo che lui poteva. Il populismo ha sempre bisogno di un Messia. E anche di una giustificazione: noi custodiamo l’identità del popolo” (intervista a Die Zeit, marzo 2017). Il papa, oltre a ritenere il populismo inaccettabile, fa sintesi dei suoi elementi fondamentali: uso del popolo, peso della crisi economica, emergere di leader messianici, propaganda del leader su temi fondamentali quali quello identitario.

Sulla stessa linea è anche la seguente analisi di papa Francesco: “Si assiste con sconcerto al fatto che, mentre da una parte ci si allontana dalla realtà dei popoli, in nome di obiettivi che non guardano in faccia a nessuno, dall’altra, per reazione, insorgono populismi demagogici, che certo non aiutano a consolidare la pace e la stabilità: nessun incitamento violento garantirà la pace, ed ogni azione unilaterale che non avvii processi costruttivi e condivisi è in realtà un regalo ai fautori dei radicalismi e della violenza” (Al-Azhar Conference Centre, Il Cairo, 28 aprile 2017). In questo passo l’analisi diventa più profonda e mostra tutta le pericolosità di populismi demagogici e il loro, implicito o esplicito, favorire guerre e violenze.

 

[1] Cf. https://www.theguardian.com/world/ng-interactive/2019/mar/06/revealed-the-rise-and-rise-of-populist-rhetoric.

[2] V Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano e dei Caraibi, Documento di Aparecida (29 giugno 2007), n. 74.

[3] FRANCESCO, Omelie del mattino. Nella Cappella Domus Sanctae Marthae 3 febbraio – 30 giugno 2014, Vaticana, Città del Vaticano 2014, pp. 235-236.

[4] M. KETS DE VRIES, Leaders, fools and impostors, Essays on the Psycology of Leadership, Josseys-Bass Inc., 1993; trad. it. Leader, giullari e impostori. Sulla psicologia della leadership, R. Cortina, Milano 1998, p. 44.