“Le religioni e la guerra” Appunti preliminari per il convegno del 20 aprile

1. Una novità o un ritorno?
Possiamo prendere avvio, in queste riflessioni preliminari al convegno di aprile, da un certo senso comune diffuso negli ambienti di chiesa. Parallelamente al modo in cui – diciamo da circa mezzo secolo – ci eravamo abituati a pensare la pace come un dato permanente, almeno nelle aree del mondo che ci ospitano, così eravamo ormai orientati a pensare alle più importanti religioni come attori di pace, alcune di più e altre di meno, naturalmente. Ciò, diversamente da come venivano concepite un tempo, anche senza tornare indietro fino alla guerra dei Trent’anni e alla pace di Westfalia.
Oggi, viceversa, osserviamo un peso rilevante e crescente di fattori religiosi nei conflitti in corso, sia che li preparino, sia che li legittimino e rinforzino. Si tratta di una novità o di un ritorno? Che cosa c’è di nuovo in tutto questo? Questa è una prima domanda interessante.
La seconda domanda che vorremmo porci è: possiamo oggi considerare le religioni in prevalenza come un fattore di stabilizzazione o di destabilizzazione nei rapporti tra i popoli e le nazioni? Se cioè, come appare evidente, esistono entrambe le spinte quale delle due prevale oggi?
Seguono poi le domande inevitabili che riguardano il modo in cui la nostra chiesa sta reagendo alla nuova situazione e alle reali possibilità di “costruire la pace”, quella possibile almeno.

2. Religioni come fattore di pace
Da una parte le religioni, alcune di esse almeno, paiono svolgere un ruolo di positiva pacificazione. Ricordiamo alcuni elementi a riprova, limitandoci qui all’azione della chiesa cattolica e alle relazioni da essa intrattenute con altre religioni. Possiamo, senza alcuna pretesa di esaustività, ricordare…

  • Un susseguirsi di rilevanti documenti del magistero a sostegno della pace: dalla “Pacem In terris” alla “Fratelli tutti”.
  • Un evento simbolicamente rilevante, che ha contribuito notevolmente a modificare l’immagine delle religioni in rapporto alla guerra e alle relazioni tra di loro: l’incontro del 27 ottobre 1986 ad Assisi nel quale esponenti delle religioni mondiali si incontrarono per pregare assieme per la pace. Nasceva un modello di dialogo basato sulla fraternità che il papa Giovanni Paolo II chiamò “Spirito di Assisi”. L’aspetto importante è che si incomincia a incontrarsi e lo si fa con uno scopo condiviso, mettendo tra parentesi le diversità dogmatiche.
  • Nel 2003, in occasione della seconda guerra irachena, Giovanni Paolo II, che pure aveva sostenuto l’intervento “umanitario” in riferimento al conflitto nei Balcani, cosa troppo spesso dimenticata oggi, vi si oppose decisamente: “di fronte alle tremende conseguenze che un’operazione militare internazionale avrebbe per le popolazioni dell’Iraq e per l’equilibrio dell’intera regione del Medio Oriente, già tanto provata, nonché per gli estremismi che potrebbero derivarne”, egli disse al mondo: “C’è ancora tempo per negoziare; c’è ancora spazio per la pace; non è mai troppo tardi per comprendersi e per continuare a trattare”.
  • Evidenti sono infine gli sforzi continui compiuti in tempi più recenti da Papa Francesco. Egli comprende fin da subito come il rapporto con l’Islam sia cruciale per la pace nel mondo.
    Il 4 febbraio 2019 Papa Bergoglio e il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmed Al-Tayeb, firmano la Dichiarazione di Abu Dhabi: Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune; un passo di grande importanza nel dialogo tra cristiani e musulmani.
    Si esprime con quell’atto la fiducia che la fede porti il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare. È un invito a unirsi e a lavorare insieme. Il terreno del dialogo interreligioso viene individuato proprio nella costruzione della pace e della fratellanza umana.
    In questo è però criticato da posizioni tradizionaliste, dato il permanere di atteggiamenti antislamici diffusi, anche politicamente rielaborati.

3. Religioni come fattori di guerra: i fondamentalismi
Dall’altra parte le credenze religiose, alcune forme del loro porsi, si costituiscono come un fattore di destabilizzazione. Un ruolo chiave in ciò viene svolto dalle componenti fondamentaliste (e integriste), presenti in tutte le religioni e che talora possono diventare maggioritarie. Ricordiamo per chiarezza che per fondamentalismo intendiamo quell’atteggiamento che sostiene una interpretazione letterale dei testi sacri e pretende un’applicazione integrale dei precetti in essi contenuti, i quali dovrebbero informare di sé le leggi dello Stato, e dunque la politica e l’insieme della vita sociale (famiglia, economia, ecc.). I fondamentalismi rifiutano cioè ogni mediazione storica delle credenze e delle norme religiose. Per questo essi si accompagnano con la tendenza a rifiutare qualsiasi forma di dialogo con altre religioni e altre culture (integrismo) e sono perciò tentati dalla violenza. Di seguito alcuni esempi, anche qui senza nessuna pretesa di completezza e precisione.

  • Protestantesimo. Il fondamentalismo evangelico nordamericano, nato in opposizione alla teologia liberale, è in un certo senso il precursore dei fondamentalismi moderni (cfr. The Fundamentals: A Testimony To The Truth, 1910-1915). In genere si ritiene che esso giochi un ruolo rilevante nel determinare la politica estera USA. Un esempio riguarda il presidente G. Bush J. e l’invasione dell’Iraq: il conflitto descritto come necessità di liberare il mondo dalla presenza del male dopo l’11 settembre (“asse del male”), l’idea di esportazione della democrazia a colpi di cannone, se occorre. La seconda guerra irachena (inizio 2003) ha cioè un retroterra teocon, nei gruppi protestanti radicali della destra evangelicale.
    Va ricordato che gli effetti di questa guerra sono stati catastrofici, non solo per le vittime. Essa ha convalidato il discorso dei “due pesi e due misure” con cui l’azione degli occidentali viene negativamente valutata in molti Paesi e i suoi effetti sono ben lungi dall’essere superati, proprio come previsto da Giovanni Paolo II.
    Ci sono movimenti simili in ambito cattolico, anche se meno sviluppati. In tempi recenti essi sono stati rafforzati e radicalizzati dalla comune opposizione a papa Bergoglio.
    Il tradizionalismo cattolico (maggioritario in Usa tra gli appartenenti alla chiesa di Roma) unito al fondamentalismo evangelical hanno trovato una forma di convivenza, in una sorta di “ecumenismo fondamentalista” e sono una delle componenti del successo di Donald Trump, l’uomo politico descritto da alcune chiese come il “nuovo Costantino”, che vince perché sostenuto dalle preghiere dei credenti (In hoc signo vincens).
  • Ortodossia. Qui la rottura è nettissima, fra le stesse chiese ortodosse (cfr. Ucraina). Il concetto di Russkiy Mir (Mondo russo), quello di terza Roma, l’idea di un popolo cui spetta il compito di rigenerare la civiltà combattendo la corruzione “maligna” che avrebbe contaminato l’occidente fanno da sfondo alla rappresentazione di sé del putinismo. Essi si saldano con la nostalgia imperiale della Russia. Rappresentano inoltre un modo per recuperare la crisi esistenziale-identitaria che ha sconvolto il mondo russo, dopo la “peggior catastrofe del 20° secolo”, il crollo dell’URSS. – così Putin, non senza qualche ragione – (Utile leggere a questo riguarda Svjatlana Aleksievič). Colpisce molto, per inciso, il fatto che le parole usate in quei contesti siano straordinariamente simili a quelle adottate dai Fratelli Musulmani.
    Va considerato inoltre che la rottura interna al mondo ortodosso era presente da prima della crisi ucraina. Non è stato solo un posizionarsi rispetto a una guerra decisa da altri che ha diviso gli ortodossi, ma un contribuire a che quel conflitto potesse aprirsi. Succede che le guerre comincino prima nelle teste…
  • Ebraismo. Le successive ondate migratorie in Israele rafforzano progressivamente le componenti fondamentaliste e oggi condizionano pesantemente le politiche del governo israeliano, la natura stessa dello Stato. Troviamo qui l’Idea di Terra promessa, Eretz Israel identificata in un preciso territorio, la grande Israele, dal Giordano al Mediterraneo, dal Sinai all’Eufrate, come condizione per l’avvento del Regno divino.
    Discorsi simili si ritrovano nel così detto sionismo cristiano e nell’evangelismo apocalittico, i quali leggono i conflitti in corso come segni della resa dei conti finale (l’Armageddon) da riconoscere, secondo gli uni, da incentivare attivamente per accelerare i tempi della salvezza, secondo altri.
  • Islamismo. Qui emergono movimenti islamisti radicali, Fratelli mussulmani, ecc. le cui imprese sono assai conosciute tra di noi, tanto da far identificare in occidente il fondamentalismo con quei movimenti e con l’Islam in generale. Ritorna oggi la distinzione tra dār al-Islām (casa dell’Islam, inteso come territorio pacificato dove risiede l’Umma) e dār al-ḥarb (la “Dimora della guerra”).
    L’immagine islamista della Palestina è speculare a quella israelo-fondamentalista: anche in questo caso è Dio ad aver dato la Terra a un popolo (così Hamas nel suo documento costitutivo). Lo scontro in Palestina è perciò anche un conflitto tra l’islamismo di Hamas e il sionismo messianico di certe componenti della popolazione israeliana (coloni…). La guerra è perciò sempre più dominata dalle rispettive componenti religiose quasi fosse un conflitto non tra due popoli, ma tra due religioni
  • Forme di radicalismo fondamentalista esistono anche in altre religioni, compreso il Buddismo, cosa per noi difficile da immaginare.
  • C’è da aggiungere infine che non si tratta solo di componenti minoritarie delle religioni, o di istanze che si muovono esclusivamente in forma settaria e groppuscolare. Il fenomeno dell’irrigidimento fondamentalista potrebbe coinvolgere intere nazioni. Il caso più rilevante è il viraggio verso una forma di nazionalismo a base religiosa dell’India di Modi. Come oggi si sente dire laggiù: “L’india è degli Hindu”.

4. Un grossolano bilancio
Dice p. Sabino Chialà, priore di Bose, su Avvenire: “Non di rado, e oggi ancora in varie parti del mondo, Chiese e religioni, anziché arginare la violenza, le offrono argomenti e giustificazioni. Anziché disinnescare le paure che generano le guerre, le alimentano, assommando le loro ansie e i loro timori a quelli di poteri politici ed economici”.
Se si osserva, a volo d’uccello, il quadro globale è difficile evitare l’impressione che I fondamentalismi abbiano oggi una influenza maggiore delle componenti moderate, nel determinare i conflitti in corso. Tanto che si potrebbe parlare di un contributo netto delle religioni alla “terza guerra mondiale”, per usare l’espressione di Bergoglio, discutibile ma utile metaforicamente.
Il conflitto “duro” non è solo esterno alle religioni, qualcosa che le religioni subiscono, ma è anche interno ad esse, per cui le stesse religioni si presentano come un “campo di battaglia”, tra componenti moderate che cercano di costruire la pace attraverso forme di dialogo interreligioso e posizioni oltranziste, che assecondano i conflitti quando non li fomentano. Il caso oggi più evidente e pesante è rintracciabile all’interno dell’Ortodossia.
Va notato che i gruppi fondamentalisti erano un tempo largamente minoritari. Oggi la loro presenza ed efficacia si sono allargate di molto. Qui ci si dovrebbe chiedere: perché ciò è avvenuto? Sia in termini di diagnosi: quali le cause? Sia in termini di prognosi: perché questa mancanza di anticorpi interni? Quali risposte si potrebbero immaginare? (cfr. a questo riguardo anche la domanda finale del paragrafo successivo.)
Il ruolo dei fondamentalismi appare invece tutto sommato sottovalutato. Le componenti moderate lasciano fare o si accontentano di ascoltare i propri leader religiosi che invitano alla pace, pensando che il problema della divisione e del conflitto non riguardi direttamente loro stessi.
Per le chiese il problema è invece anche (ri)fare i conti con il permanere di idee contrapposte su ciò che Dio è e vuole, e sui modi di presenza dei credenti nella storia. Che risposta si può dare su questi terreni? Sapendo che la questione non riguarda solo le altre religioni, l’Islam, ecc.; riguarda anche il cristianesimo. “È all’interno del cristianesimo che si pone la necessità di affrontare criticamente il nesso assai problematico tra religione e guerra” (Mazzucotelli).
Le guerre in corso rivelano la debolezza delle componenti che si sforzano di costruire la pace, nel mentre mettono in crisi le loro speranze di pace.

5. Il nesso credenze religiose-guerra
Altre domande che appare necessario porsi: esiste un interesse o una disponibilità delle religioni a farsi coinvolgere nei conflitti? Perché lo fanno? E anche: possono permettersi di non farlo, in certe situazioni?
Sappiamo che il fattore religioso riveste un ruolo importante nella costruzione delle identità etnico-nazionali. Le religioni in certi contesti, dice Enzo Pace, si configurano come “ancelle premurose dell’etnia”; esse si manifestano cioè come “ideologie etniche”. Ciò avviene più facilmente quando la sopravvivenza fisica e/o morale-culturale di un popolo è avvertita come messa in discussione da sfide radicali.
Ma avviene anche al di là di queste situazioni estreme, perché gli stati hanno spesso problemi di insufficiente legittimazione. L’idea che la legittimità di tipo formale-costituzionale affermatasi in occidente non abbia risolto tutti i problemi nemmeno qui da noi è emersa in tempi relativamente recenti (cfr. Böckenförde, Habermas). Tanto più l’attuazione di quel modello si manifesta come problematica in culture diverse (non secolarizzate) dove le religioni si configurano come risorse radicate, facilmente attingibili e non certo trascurabili per fondare la legittimità del potere. Accade così che le religioni siano ben contente di recuperare o mantenere funzioni essenziali nel mantenimento dell’ordine sociale e il potere le usi conferendo loro corposi benefici in cambio di sostegno e fedeltà (cfr. Kirill e Putin).
Possiamo probabilmente distinguere a questo riguardo tra soggetti religiosi che si fanno promotori attivi delle politiche dell’identità (etniche – nazionali) e che possono arrivare fino al punto di sostenere conflitti guerreggiati e chiese-religioni che finiscono per essere coinvolte nel conflitto loro malgrado. Il caso più evidente qui vede da un lato la chiesa ortodossa del patriarcato di Mosca e dall’altro le chiese ucraine, quella ortodossa autocefala e quella cattolica, nelle sue diverse ripartizioni. Quando il conflitto precipita appare molto difficile non farsi coinvolgere. Si veda a questo proposito le difficoltà di rapporto tra chiesa cattolica ucraina e chiesa di Roma; il riemergere di discorsi sul combattere fino alla “vittoria” (sinodo della chiesa greco-cattolica ucraina), le preghiere e le benedizioni per i propri soldati, ecc. Cose che fino a qualche tempo fa apparivano inimmaginabili; che ripropongono tutti i temi della guerra in essere e che non sappiamo più come trattare.

Ci ritroviamo in definitiva, spesso anche dentro la stessa religione, con due concezioni nettamente diverse e opposte: da un lato con un discorso religioso iper-politicizzato e iper-attivo, che chiude con la separazione tra religione e politica, o non ha mai accettato questa separazione, e dall’altro con una ispirazione religiosa depoliticizzata, piuttosto passiva, oggi in difficoltà, di chi crede di aver trovato la soluzione nella più totale separazione tra politica da religione, nei modi di una spiritualizzazione del religioso. Tanto che ci si potrebbe chiedere rudemente: non sarà che le speranze di un futuro diverso, già da tempo “emigrate fuori dalla Chiesa” (Moltmann), dopo aver trovato provvisorio ristoro nelle religioni secolari, crollate queste, o confluiscono in modo regressivo nei fondamentalismi o non sanno dove andare?

6. Costruire la pace e fare i conti con la guerra
Il breve periodo di pace, forse più che altro di speranza di pace, che abbiamo vissuto dopo la fine della guerra fredda (disarmo, migliori relazioni tra stati, diffusione della democrazia), aveva dato impulso all’affermarsi nella chiesa cattolica e non solo in essa di un discorso sulla guerra che vede come possibile la sua abolizione, secondo il motto “Mai più la guerra”. Si è cominciato cioè a pensare la guerra come ragionevolmente superabile, non solo in una prospettiva puramente escatologica.
Poiché la guerra è sempre male la riflessione teologica tende(va) a svilupparsi, ma anche a confinarsi, nella speranza che questa prospettiva sia realistica. La teologia della guerra diventa teologia della pace. C’è in questo una giusta intuizione, dato che la pace è soprattutto un problema di “costruzione” (come recita il Testo: “Beati i costruttori di pace”). Poi nei fatti il discorso sulla “costruzione” in questi anni è rimasto tra le righe e non è riuscito a frenare le tendenze inverse. Ci si ritrova perciò con le guerre da un lato e con delle semplificazioni dall’altro. Se la pace è realizzabile nel qui e ora – è solo una questione di volontà – allora se c’è qualcosa di cui ha senso discutere ciò riguarda solamente la questione dell’entrata in guerra (Ius ad bellum), e la risposta dovrebbe essere tendenzialmente sempre negativa. Non esiste nessun diritto a entrare in guerra perché non esiste nessuna guerra “giusta”. Solo due anni fa sembrava che si stesse andando cioè verso una teologia del rifiuto dell’uso della forza in quanto tale. La teologia della “guerra giusta” era stata messa nel cassetto da tempo, almeno come formula sintetica e i teologi avevano smesso di “pensare la guerra”. Ma quali problemi rimangono irrisolti dal permanere della guerra?
Oggi in ogni caso il quadro è già cambiato: l’azione delle religioni che vorrebbero lavorare per costruire la pace sembra in affanno e il discorso sulla guerra ritorna in qualche modo. E ci si può chiedere: la riflessione appare adeguata? Dice qualcosa il fatto che i cattolici anche su questo si dividano, chi radicalizzando il discorso sulla pace, chi provando a fare i conti con la guerra. Dice qualcosa il fatto ancor più interessante che tale divisione polarizzi da un lato chi ragiona in termini di “governo” e cita Mounier (i Prodi, i Mattarella…) e chi frequenta le marce e le fiaccolate?

7. Le difficoltà dell’azione pacificatrice
Alcuni tendono probabilmente a sopravvalutare gli effetti dell’azione recente della Santa Sede a fini di promozione della pace (cfr. Riccardi). In realtà essa purtroppo non è parsa molto incisiva e si tratta di capire se lo è stata per l’intrinseca impossibilità di esserlo e/o (anche) per limiti di natura teologica e/o di carattere politico-diplomatico.
È perfino banale ricordare che le guerre una volta scoppiate sono assai difficili da fermare, che quanto si poteva fare era da porre in essere prima e, di conseguenza, che forse non si può chiedere troppo alle religioni, per quanto influenti siano. Ma questo non significa che non vi possano essere anche limiti di altra natura. Su questo si propongono tre punti, per discutere.
1) Sul piano teologico si assiste a un (parziale?) ritorno, non detto esplicitamente, della dottrina tradizionale: cfr. diritto alla difesa e concetto di proporzionalità. Questa ricomparsa dà l’impressione di essere avvenuta in modo un po’ forzoso, perché costretti dai fatti, e forse non in modo sufficientemente rigoroso. Ciò ha impedito lo sviluppo di argomentazioni più articolate come in alcuni casi sarebbe necessario. Succede perciò che si sostengano posizioni non sempre lineari e che si dia l’impressione, di tanto in tanto, di cambiare atteggiamento o, se non altro, il tono.
Se si intende giustamente sostenere, per fare un esempio, che la reazione israeliana non è “proporzionata”, non si può semplicemente farlo in modo sommario, occorre entrare nel merito delle obiezioni, in questo caso di parte israeliana, che negano ciò in nome delle particolari condizioni “tecnico militari” con cui la guerra si realizza a Gaza, questo anche per poter contro-argomentare meglio. Utilizzare, anche se solo in parte, la dottrina tradizionale della guerra implica cioè confrontarsi con quello che la conflagrazione militare è nel suo concreto manifestarsi, oggi. A meno che non si decida di non scendere su questo piano, ma allora bisognerebbe evitare accuratamente affermazioni che lo richiamino.
In ogni caso vale la pena di chiedersi: come valutiamo questo ritorno? È avvenuto, sta avvenendo in modo rigoroso? È utile? Basta “il ritorno”?
2) Sul piano delle relazioni tra religioni negli ultimi due anni, sotto lo stimolo delle guerre non si è avanzati decisamente sulle strade del dialogo interreligioso, provando a svilupparne tutto il potenziale. I rapporti sono stati mantenuti con le singole chiese/religioni (spesso con risultati deludenti, cfr. Kirill), ma non si è provato a promuovere una iniziativa generale delle religioni per la pace, sulla strada di Assisi e di Abu Dhabi. Perché ciò non è avvenuto? Si poteva? E nel caso plausibile dell’impossibilità, che significato dobbiamo attribuire al fatto che non si sia potuto? Siamo di fronte a una preoccupante conferma della debolezza dell’azione orientata alla pace?
3) Anche retrospettivamente, prima cioè delle crisi attuali, è mancato un percorso attraverso cui le religioni che intendono costruire la pace e la fratellanza umana provano a interloquire direttamente con gli stati ponendo loro domande, e avanzando proposte, su come pensano di porre rimedio alla crisi dell’ordine mondiale e in particolare su come (e se…) intendono rivitalizzare le istituzioni regolative che operano a livello internazionale. Dobbiamo prendere atto che c’è una impotenza delle religioni? Forse perché divise all’interno e all’esterno? In definitiva, cosa vorrebbe dire oggi, per le religioni contribuire alla costruzione della pace nella situazione determinatasi?
Perché oggi quest’ultima potrebbe anche essere descritta nei termini che seguono. Esiste uno scarto apparentemente incolmabile tra i tempi con cui il quadro globale rischia di precipitare e i tempi necessari a sviluppare in forma credibile risposte di tipo cooperativo-non aggressivo e a riconfigurare le grandi istituzioni internazionali che dovrebbero regolare i rapporti tra stati e impedire il precipitare delle crisi (o a delimitarne la portata). È probabilmente questo il punto debole di molti dei discorsi sulla pace che si ascoltano.

8. Un discorso non del tutto chiaro
Il discorso della chiesa di Roma sulla guerra non è stato del tutto privo di incertezze. Esse non di rado si manifestano nel dibattito pubblico e qualche volta negli stessi interventi della Santa Sede (la “diversità” tra il Papa e la Segreteria di stato, la necessità di rettificare…).
Come già si accennava il suo discorso pare oscillare tra il rifiuto dell’entrare nel merito delle guerre in atto, e il progressivo rifluire sull’utilizzo (probabilmente inevitabile, ma forse anche da aggiornare) della dottrina tradizionale. Vedi a questo proposito il ritorno dell’idea di “difesa giustificata” in riferimento all’Ucraina che reagisce all’invasione russa e il diritto riconosciuto ad Israele a difendersi, come a vedere ammessa la propria esistenza.
Ora, si potrebbe sostenere che le differenze emerse riflettono la distinzione tra azione condotta a livello morale-umanitario (il giusto discorso con finalità persuasive – parenetiche – del Papa sulla intrinseca malvagità della guerra) e azione politico-diplomatica: ciò che fanno la segreteria di stato, gli altri legati pontifici come Zuppi, e il Papa stesso in alcuni casi, per lenire gli effetti della guerra, richiamare gli eccessi dei belligeranti e tenere aperta una via di dialogo. Ma, tenuto conto della notevole caoticità delle voci ascoltabili dai media cattolici, non di rado in contraddizione oggi con quello che scrivevano ieri, il messaggio che arriva ai credenti riflette con sufficiente chiarezza questa distinzione in sé corretta e accettabile? Possiamo dire questo?
Più in generale la domanda che queste incertezze pone è: il discorso deve essere unicamente pensato a partire dall’idea di abolizione della guerra o deve anche confrontarsi secondo i modi di una teologia “pratica” e non ingenua con il fatto del permanere della guerra, con le sue caratteristiche odierne, in concreto con la legittimità della difesa e dunque con l’esistenza e l’uso della forza militare (deterrenza), con le strategie volte a trattenere, a rallentare (secondo il principio paolino di Katéchon), a delimitare, a regolare? O tutto questo deve essere rimosso dall’orizzonte della riflessione?
Se da un lato si deve oggi ripensare come potrebbe essere una via aggiornata volta alla costruzione della pace, in cui ricollocare il ruolo delle religioni (di pace) dall’altro è forse necessario rielaborare il fatto “duro” del suo permanere. Del come si affronta, ma anche del “che cosa ci dice?”

9. La “comprensione” della guerra
Molto rapidamente su questo. Si può dire che oggi tra di noi, ma anche in certe prese di posizione della chiesa di Roma, prevale una lettura non abbastanza approfondita dell’origine delle guerre?
Al ragionamento manicheo e propagandista, prevalente nei discorsi dei politici e dei media occidentali e anche in alcuni studiosi, che oggi interpreta i conflitti attuali puramente come uno scontro tra democrazie e autocrazie, se ne contrappone qualche volta uno che vede la guerra come semplice effetto della sete di potere di politici che non hanno alcuni interesse per la vita dei loro popoli, e come un derivato dell’influenza dell’industria produttrice di armi (vista solo come causa e non come conseguenza). Si interpreta cioè la guerra da un lato come l’effetto meccanico di certi interessi economici (riassumibile con altro linguaggio nell’idea di “complesso industriale-militare”) e dall’altro come l’effetto di una certa disposizione dell’animo di chi governa. Con questa lettura si lascia intendere che gli interessi dei popoli agiscano sempre in direzione contraria alla guerra, mentre i potenti se la godono e si arricchiscono attraverso i loro traffici con l’industria bellica.
Non si coglie che le guerre coinvolgono ben più profondamente gli interessi dei popoli stessi, quelli che riguardano il proprio benessere socioeconomico (sempre potenzialmente in conflitto con quello di altri) e quelli non meno vitali che riguardano la conservazione della propria identità. Cose che chi governa non può certo dimenticare (democratico o autocratico che sia) e da cui nasce l’insopprimibile (?) tendenza degli stati al mantenimento e all’accrescimento della loro potenza (Galli Della Loggia).
Le responsabilità cioè non sono certo distribuite in modo uguale tra governati e governanti, ma non sono nemmeno così concentrate su questi ultimi come qualche volta si lascia intendere e la questione non è dunque solo quella di “convertire i potenti” o di rinfacciargli la loro peccaminosa crudeltà mentale.
Attraverso certe semplificazioni, oggi diffuse negli ambienti di chiesa, si può immaginare più facile il superamento della guerra, ma non si fanno molti passi in avanti in quella direzione e nel frattempo si finisce per contribuire alla cultura “populista” imperante.
Frutto della speranza di una facile liberazione dal conflitto guerreggiato, quello che si è accantonata da qualche tempo è in definitiva una riflessione costante sulla natura della guerra e su tutto quanto vi sta “dietro”.