Provare l’impossibile: mettersi nei panni di popoli in guerra

“Quando le persone affermano di essere pro Israele o pro palestinesi mi deprimo
perché capisco che qualsiasi cosa dica resteranno della loro idea” (…)
“La gente è convinta che odiare una parte o l’altra sia attivismo,
mentre lo è affrontare i problemi e provare a risolverli”
[Etgar Keret]
Contro l’epoca delle tifoserie impulsive
In questa News Letter troverete due poesie e sette testi parte dei quali nati in ambiente palestinese, parte nel contesto ebraico-israeliano. Essi vorrebbero servire ad alimentare quel particolare tipo di immaginazione che è presupposto necessario del mettersi nei panni di chi soffre e vive nella paura, nello specifico perché sta vivendo una guerra orribile, alimentata da una inimicizia senza limiti, che assomiglia molto a “un massacro bilaterale”.
Come al solito i testi sono anticipati da una presentazione che ha il duplice scopo di agevolarne la comprensione e di aiutare chi non ha tempo di leggerli per esteso nel farsi una idea dei termini delle questioni di cui si occupano.
Quello che attraverso questi scritti vorremmo azzardare è un tentativo, difficile ma a nostro avviso necessario, di sfuggire al pericoloso binomio amico-nemico, a quella spinta irragionevole a decidere subito di quale tifoseria far parte; come se così si potesse dar corpo a una azione impulsiva, a sua volta determinata da una reazione emotiva non riflessa; come se aderire a una “squadra” fosse più importante che dare ascolto, comprendere e immaginare soluzioni.
È questa una delle malattie che nel nostro tempo sta contaminando le menti e gli animi; non solo sui social, non solo tra la gente priva di cultura e di responsabilità decisionali. In tutto notiamo un penoso sfarinamento delle posizioni meditate e, in fin dei conti, della capacità di comprendere e compatire.
Non si tratta di cercare una agnostica equidistanza, ma di tentare la via di una partecipata “equi vicinanza”, termine che però non esiste nella nostra lingua, forse non casualmente. E ciò nel senso in cui si esprimeva il cardinale Martini: “Dare voce al dolore altrui è premessa di ogni futura politica di pace”, perché se guarderemo solo al dolore degli uni dimenticando quello degli altri, contribuiremo anche noi a costruire una memoria malata, in cui non c’è spazio per l’incontro e l’accordo.
Queste note sono state sviluppate in modo più ampio in Castegnaro A. “Un massacro bilaterale” in SettimanaNews del 19 dicembre 2023
https://www.settimananews.it/informazione-internazionale/un-massacro-bilaterale/
1. Due poesie
Iniziamo i testi contenuti in questa News Letter con due poesie. La prima è opera di una ragazzina israeliana – la immaginiamo semplice, sensibile, dagli occhi aperti – che esprime con immediatezza il rifiuto di rappresentare, usando la tavolozza dei colori che porta nello zainetto, la guerra con i suoi drammi e nel contempo la volontà di raffigurare il suo desiderio di pace e di felicità.
Con l’altro canto un poeta palestinese si rivolge ai figli di Gaza, non solo ai suoi, immaginando la sua morte, puntualmente avvenuta pochi giorni dopo, in modo tanto più straziante. Con i suoi versi egli supplica che venga presto lanciato un aquilone nei cieli della sua terra in modo che i bambini possano sognare “per un momento che un angelo sia lì a riportare amore” in quel paese martoriato.
La breve ricostruzione (al termine della poesia) che abbiamo tentato della sua vita e delle immagini di lui, delineatesi su opposte sponde, dice più di tante parole quanto, nel caso di una guerra come quella in atto in Medio Oriente, rappresentazioni della stessa persona possano mescolarsi e anche quanto aggrovigliata sia da quelle parti la tessitura dell’odio e dell’amore.
2. Una famiglia sotto le bombe
Questo articolo aggiunge altre informazioni sulle condizioni nelle quali è vissuto il poeta Alareer, a cui si deve la seconda delle poesie qui riportate. Si tratta di un testo dal sapore etnografico nel quale l’autore racconta cosa significa per una famiglia vivere sotto i bombardamenti, gestire la paura dei piccoli, inventare argomenti per rassicurarli, provare comunque a vivere le piccole feste che scandiscono la vita quotidiana delle famiglie e della comunità. Siamo nel 2021, la guerra non è tremenda come oggi, eppure l’autore e sua moglie si considerano una coppia palestinese “perfettamente nella media”, dato che “insieme [abbiamo] perso più di trenta parenti”. Noi ora sappiamo che questo bilancio si è aggravato di molto (cfr. la nota al termine della poesia).
Vivere sotto le bombe vuol dire anche acquisire competenze nuove, a noi del tutto estranee: “Essere un buon genitore a Gaza significa sviluppare un talento per [prevedere] ciò che faranno i droni e gli F-16 israeliani”. Si tratta di prendere “l’intollerabile decisione” se sia meglio restarsene rintanati in casa sperando di non venire colpiti o scendere in strada fuggendo di qua e di là alla ricerca di un luogo che possa sembrare più sicuro.
Che l’odio possa essere la risposta più “naturale” a una situazione di questo genere non stupisce. E Alareer, nonostante il suo desiderio di amore, non si è sottratto a questa sorta di meccanismo automatico (cfr. di nuovo la nota al termine della poesia). E così l’amore alimenta ostinatamente l’odio, ma senza che, in terra di Palestina, un qualche vento gentile soffi in direzione contraria, permettendo di vivere.
3. “Cristo sotto le macerie”. La visione tragica di un cristiano di Palestina
Troverete qui il discorso che un cristiano palestinese, ministro luterano in Betlemme e teologo, ha pronunciato il giorno di Natale 2023. Si tratta di un discorso esasperato, che in certi passaggi induce una qualche dolorosa perplessità, per la sua tendenza a vedere un mondo uniforme e criminale, tanto da non scorgere nemmeno le manifestazioni pro-palestinesi, ma proprio per questo dà l’idea del clima nel quale si vive e si sopravvive in Palestina, anche nella minoranza cristiana.
È immediato cogliere fino a che punto egli sia adirato. La sua è una visione propriamente apocalittica: siamo all’ ”annichilimento”, questo è “genocidio”, “Gaza non esiste più”. C’è una precisa rappresentazione che egli si fa delle origini di tutto ciò. Dietro a quanto sta avvenendo si intravede l’ “ombra dell’Impero” di cui tutti sono servitori. Questo dà non solo sostegno militare, ma anche copertura politica e, cosa che più lo scandalizza, copertura teologica. “I cristiani del mondo occidentale si sono assicurati che l’impero avesse la teologia necessaria”. “La Bibbia è strumentalizzata contro di noi”, “persino il nostro Regno in Cristo non ci protegge” – dice – e sembra non pensare solo a certe forme di fondamentalismo di matrice evangelical. Il suo sguardo non va troppo per il sottile e tende a generalizzare: i palestinesi si sentono “oltraggiati dalla complicità della chiesa”, tormentati dai silenzi delle chiese, che “non hanno nemmeno chiesto il cessate il fuoco”. Esattamente il contrario di quanto sostengono le comunità israelitiche di casa nostra, che invece sono colpite dalla reazione a loro avviso non solidale con Israele nelle comunità cristiane.
Il mondo occidentale, per il ministro luterano, è radicalmente razzista. Esso non vede i palestinesi come “uguali”, non si fida delle loro parole, li guarda con sospetto. Ma Gaza oggi è per lui “la bussola morale del mondo”. Chi tace è complice. Se non capite che c’è un genocidio in atto “è colpa vostra. È un peccato oscuro che avete deciso di abbracciare”. Non parlateci più di diritti umani. Non accetteremo più lezioni da voi. I palestinesi un giorno “guariranno”, “risorgeranno”, ma voi, cosa succederà a voi?
4. Cristiani palestinesi o cristiani di terra santa? Il peso delle parole.
L’antefatto. In occasione del Natale il presidente francese Macron ha telefonato al patriarca latino di Gerusalemme (card. Pizzaballa) per esprimere la sua preoccupazione per i molti “civili di tutte le fedi” che vivono sotto le bombe e la solidarietà della Francia per quelli che ha chiamato “cristiani di terra santa”, in particolare per l’ “indegna” uccisione di due parrocchiane avvenuta alcuni giorni prima, un crimine di cui ha parlato anche Papa Francesco. (Le Monde del 24/12/2023)
Lungi dall’essere stata apprezzata questa telefonata ha suscitato reazioni molto forti negli ambienti cristiano palestinesi per l’uso del termine “cristiani di terra santa”. Gli argomenti utilizzati contro di esso sono interessanti.
Nella lettera aperta che qui trovate, inviata a Macron da uno scrittore palestinese, traspare lo sdegno che questo termine ha suscitato e che noi forse fatichiamo a comprendere del tutto. Si tratta a suo avviso di uno “spaventoso” “abuso di linguaggio” che “sgomenta” perché finalizzato a “far sparire (…) la nostra cultura e le nostre tradizioni”. Noi siamo – dice – “cristiani palestinesi”, siamo parte della “nazione palestinese”. E viviamo in “una terra un tempo santa, ora insanguinata”.
C’è in questa definizione da un lato la fierezza di sentirsi parte di una nazione e dall’altra l’orgoglio di praticare una religione “i cui miti fondativi sono nati qui, a Betlemme”, non a Roma, né a Parigi. È una religione “la cui storia primordiale è quella di un ebreo che vive sotto il giogo dell’occupazione e che è incentrata sulla sua nascita luminosa e poi sulla sua morte per mano di un impero e dei suoi esecutori”. Quello che a venire perseguitato era un tempo un ebreo, ora è un palestinese, sembra dire attraverso questa rilettura della storia religiosa. E ritorna il tema dell’impero che abbiamo già trovato nelle parole del ministro luterano. La lettura religiosa degli eventi sembra affacciarsi, ma l’autore non intende andare troppo in quella direzione.
A suo avviso Macron non è ignaro di quello che fa (cosa che invece noi temiamo…). Il suo è propriamente un tentativo di “riconfigurare la Palestina come una questione essenzialmente religiosa”; esso è finalizzato a far supporre che vi sia una sostanziale inconciliabilità tra ebrei e musulmani e a oscurare la realtà della colonizzazione, dell’apartheid, annegandole nella nebbia religiosa di una opposizione solo apparentemente irrisolvibile. In questo modo “con il suo compiacimento” verbale sta contribuendo al massacro (!)
5. “La parola pace, oggi, è storta se applicata qui”
L’articolo della Mannocchi che qui riportiamo può fare da trait d’union con i successivi interventi, tutti di origine ebraica – israeliana. Può farlo perché all’atteggiamento disperatamente rabbioso dei palestinesi che abbiano appena letto contrappone alcune “pacate” voci di coloni ebrei in Cisgiordania i cui contenuti sembrano offrire un fondamento speculare alle ragioni dei primi. Ricordiamo qui brevemente che tra Gerusalemme Est e il West Bank (altro nome della Cisgiordania) vivono oggi circa 750.000 ebrei, la cui presenza viene dai più considerata illegale (in base alla Convenzione di Ginevra del ’49) e che nella prima metà del 2023 – prima dei fatti del 7 ottobre – è stata registrata una media mensile di 95 aggressioni di coloni ai palestinesi (Nello Scavo).
Un colono col fucile in spalla risponde alla Mannocchi che “dal 7 ottobre nessuno farà più ritorno” e lo fa con una calma inquietante che lo distingue nettamente dalle testimonianze palestinesi, anche se ha tre figli dislocati tra il fronte nord e quello sud. Come tutti, vede i cadaveri dei bambini palestinesi in Tv, ma rifiuta l’equazione fra i suoi morti del 7 ottobre e le vittime odierne di Gaza. “Avrebbero dovuto pensarci prima” dice e aggiunge: “è quello che dobbiamo fare”. Meglio che se ne vadano tutti, in Egitto e negli altri stati arabi. C’è spazio. “Dobbiamo avere il coraggio di prendere una decisone e di portarla fino in fondo… Uno stato solo per un solo popolo”. Inutile dire quale.
Colpisce ancora di più l’altra intervista, perché di una giovane donna di 24 anni, semplice, con due figli. Alla soluzione dei due stati non crede. “Noi qui siamo più pragmatici” dice e mai parola ci sembrò più torbida. Questa mamma ritiene che la speranza della convivenza dopo il 7 di ottobre non sia più possibile. “Non si tratta più di discutere la pace, la parola pace, oggi, è storta se applicata qui”. Dovete prenderne atto dice rivolgendosi a noi che la ascoltiamo. “Prima lo fate e prima potremo vivere nel nostro Stato”.
6. La fine del mondo
Provare a immaginare come i palestinesi vivano questa guerra è ovviamente cosa difficile, e forse impossibile. Ci sono però tra di noi tradizioni religiose e politico culturali che, tra il forte e il debole, inducono quasi naturalmente a mettersi nei panni del debole e aiutano a farlo, qualsiasi sia il risultato in termini di effettiva condivisione. Lo si è visto in giro per le strade e nelle università di molti dei nostri paesi, agitate da gruppi forse non abbastanza riflessivi nella loro scelta di campo “assoluta” e in ogni caso inconsapevoli delle conseguenze non previste di lungo periodo del diffondere una certa immagine del popolo ebraico.
E tuttavia questa operazione potrebbe risultare altrettanto difficile e per certi aspetti ancor di più se oltrepassiamo il confine. Potrebbe cioè essere meno “naturale” per noi comprendere il punto di vista israeliano dopo il 7 di ottobre e dopo quasi quattro mesi di bombardamenti. Che cosa è veramente successo allora? Lo sappiamo noi?
La rapida dimenticanza in cui è caduta l’azione di Hamas dà l’impressione che non si sia ben compreso quale sconquasso culturale e psicologico produca il fatto di scoprire improvvisamente che il luogo della tua sicurezza, faticosamente conquistata, o quasi, dopo secoli e secoli di pogrom e persecuzioni, in effetti sicuro non sia e che quel mondo si sia dissolto nel giro di poche ore. Ciò che è avvenuto in Israele è probabilmente una vera e propria “apocalisse culturale” – per usare le parole dell’antropologo Ernesto De Martino – una “nuda e disperata” catastrofe del domestico, una fessurazione del mondo della vita, la “fine del mondo”, intesa come un momento nella storia del popolo di Israele che ripropone la possibilità del non esserci più, quella che lo studioso chiama una “crisi della presenza”. Un rischio che gli ebrei vivono da molti secoli e che incombe anche sul popolo palestinese. In ciò, seppur in forme diverse, hanno molto in comune. Questa è forse la ragione della loro radicale inimicizia.
Non è uscito nulla di meglio per descrivere questa situazione propriamente apocalittica che un articolo apparso sul Corriere della Sera e di cui è autore uno scrittore israeliano, che vive tra l’Italia e il suo Paese. Si tratta né più né meno del racconto dettagliato di come hanno vissuto lui, la sua famiglia, i suoi amici e conoscenti, il tragico evento del 7 ottobre e le sue conseguenze, di quale livello di drammatico coinvolgimento abbia determinato nella popolazione, di cosa è stato indotto a pensare un israeliano di cultura laica, sostenitore del diritto alla autodeterminazione dei palestinesi e che si addolora per gli abitanti di Gaza. Perché lui dice: “Guarda i video di Hamas e credici. Questa è la faccia del male, il male nel mondo esiste e se non lo fermeremo arriverà fino alla vostra casa, ai vostri figli”.
Il 7 di ottobre egli era in Italia: “è tempo di tornare a casa” ha pensato immediatamente. Arrivato in patria trova una situazione in cui “Tutte le persone sono al limite. A un passo dal baratro”. Durante un incontro organizzato in un Kibbutz per tentare di rincuorare i sopravvissuti osserva i corpi dei presenti. “Sembrava che ne avessero succhiato fuori la vita, l’anima. Restavano solo dei gusci vuoti”.
La storia che si erano raccontati sulla loro vita sicura in Israele si è spezzata. Ora c’è un popolo che deve trovare una storia nuova. Sarà quella che si costruisce attraverso le bombe, per ritrovare una sicurezza fondata sulla potenza militare? L’autore probabilmente non lo pensa. Una delle domande da cui è tormentato è “come si combatte la malvagità pura di Hamas senza esserne contagiati? Come possiamo continuare a credere nella bontà insita nell’uomo, dopo quanto abbiamo visto?” Una cosa è certa per lui: qualsiasi sia il nuovo “racconto”, su cui costruire un nuovo “mondo”, “Hamas non potrà farne parte”. Questo è il nostro paese. Noi non abbiamo altro posto dove andare. Oggi, a più di due mesi dalla stesura dell’articolo, immaginiamo sia stia chiedendo: è ancora possibile pensare a una rinascita senza uscirne “contagiati”, come speravo
7. Contro gli esercizi di empatia selettiva
Vivere in Israele dopo il 7 ottobre conservando una qualche empatia per i palestinesi deve richiedere uno sforzo eccezionale. Ci prova, in qualche modo un uomo di sinistra che aveva fatto suo lo slogan “stop a 56 anni di occupazione”, Etgar Keret, scrittore israeliano e docente nelle università locali. Per questo ci è probabilmente più facile comprenderne il modo di raccontare, tanto da aver deciso di mettere due sue citazioni all’inizio della nostra News Letter.
Il suo stato d’animo è incerto. Da un lato pensa che quanto avvenuto, un “terremoto senza precedenti”, “illogico e autodistruttivo” per i palestinesi, rappresenti un’opportunità per decidere finalmente un cambiamento di linea. Ottimisticamente spera ancora (a fine novembre) che Biden riesca a “supervisionare” Netanyahu. Dall’altro dover contare – dice – sul buon cuore degli ayatollah e su quello dei coloni – “due agenti del caos” – perché la situazione non precipiti, non gli fa dormire sonni tranquilli.
Un’altra cosa che lo inquieta è la percezione che il conflitto si sia spostato dal piano territoriale a quello della guerra religiosa. “Se a Gaza s’invoca “Allah akbar” si entra in un campo molto diverso”. E si potrebbe aggiungere che in un campo differente fanno entrare anche i discorsi su “Haaretz Israel” (אֶרֶץ יִשְׂרָאֵל) “dal fiume al mare”, ventilati dalla destra formata da quelli che Keret definisce “estremisti religiosi, messianici e razzisti”.
Ad ogni modo, secondo lui, dopo “l’enormità” di quanto avvenuto il 7 di ottobre non c’erano alternative all’intervento, perché divenuto molto popolare, e questo è avvenuto in forma “più brutale che mai”. Senza che sia chiaro peraltro se sia servito a qualcosa. Nemmeno adesso lo si capisce, potremmo aggiungere.
Nel frattempo “troppi da una parte e dall’altra” fanno strame delle parole, “abusano di termini come genocidio, shoah” e noi potremmo continuare: sionismo, antisemitismo, colonialismo, ghetto, apartheid, nazismo, ecc. L’importante, in ogni parte del mondo, sembra essere diventato “schierarsi”. E Keret commenta saggiamente così: “è l’indice dei tempi: le persone non vogliono informazioni, ma cause da sostenere”. “La gente è convinta che odiare una parte o l’altra sia attivismo, mentre lo è affrontare i problemi e provare a risolverli”.
Quello che ferisce Keret è il fatto che molti suoi connazionali, come i coloni di cui parla la Mannocchi, non vogliano vedere i morti di Gaza. Si tratta di quello che egli chiama un “esercizio di empatia selettiva”. Non c’è niente di più pericoloso di questa specie di malattia dell’animo, che conduce a “piangere per i bambini dei kibbutz ma non per quelli palestinesi, a denunciare il massacro di Gaza e pazienza per il 7 ottobre”.
8. “Nulla di buono rimane”. Vivere da ebrei a New York dopo il 7 di ottobre
Bret Stephens è un ebreo di orientamento conservatore che vive in America, in un contesto non direttamente coinvolto nel conflitto israelo-palestinese quindi. Pubblichiamo il suo ultimo intervento dell’anno sul New York Times, di cui è opinionista, perché dice in forma molto personale il modo in cui può vivere le vicende attuali un ebreo americano la cui madre, nata a Milano e forzosamente battezzata al fine di proteggerla, è sfuggita all’Olocausto emigrando in America, quella che lei avrebbe imparato a considerare come “la terra in cui non dovevi nasconderti”.
Secondo Stephens non è più così o, quanto meno, egli teme che non sarà più così per i suoi figli. Di fatto – argomenta – cresce continuamente Il numero di ebrei che si nascondono sotto altri abbigliamenti e questa tendenza si è fortemente accentuata dopo il 7 di ottobre. Egli è preoccupato in particolare dall’aria che si respira nelle università americane, laddove proprio quegli stessi giovani che, quando sono in gioco altre minoranze o i rapporti di genere, vengono attentamente istruiti anche sulle “sfumature delle micro-aggressioni”, si è scoperto essere incapaci di cogliere le “macro aggressioni” quando ne sono vittime gli ebrei. Può darsi che in questa lettura ci sia una qualche esagerazione, forse le università non sono proprio quel coacervo di antisemiti che alcuni dicono, ma non è questo il punto. Quello che conta è il mutamento di prospettiva, la percezione di una minaccia che si estende ben oltre coloro che vivono in Palestina. Un mondo che anche al di là dell’Atlantico sembra incrinarsi, per gli ebrei.
Se c’è una lezione, tremenda lezione diremmo noi, della storia ebraica – egli dice – è che “nulla di buono rimane” ed è per questo che gli ebrei continuano a dire, alla fine di ogni Seder pasquale, “L’anno prossimo a Gerusalemme”.