Reportage dal Sahel martoriato – Burkina Faso. Così il jihadismo soffoca Bango

A pochi chilometri da Ouahigouya, capoluogo del nord del Burkina Faso, si vive nella paura. Una terra contesa dove tutto è sotto controllo: gli abiti, i telefoni, i comportamenti, le parole. Benvenuti nel territorio dei fanatici del jihad

La partenza è prevista alle ore 08:00. Punto d’incontro i locali di una organizzazione non governativa (ong) a Ouahigouya, capoluogo del nord del Burkina Faso, al confine con il Mali. Arrivo vestita con un pantalone blu, un top di cotone e dei sandali aperti.

«Ho chiamato ieri al villaggio. Dicono che va tutto bene e che possiamo andare», spiega un’animatrice dell’ong. «Ma madame – dice fissandomi – si deve cambiare d’abito. Ci vuole un vestito o un pagne (tessuto tradizionale da annodare in vita, ndr), qualcosa di decente insomma. E soprattutto si deve coprire il capo. Vede? Anch’io indosso un abito. Non è nelle mie abitudini ma ogni volta che devo visitare questa zona, cambio look».

Cominciamo bene! Peccato, però, che io non abbia abiti in valigia, solo un pagne per pregare. Lo infilo velocemente, dopo essermi sbarazzata dei pantaloni. Il foulard è ben annodato. Il nuovo dressing è composto da pagne verde, maglia blu, foulard rosso e gilet dell’ong: un melting pot di colori di cui avrei volentieri fatto a meno.

Bango è un villaggio che dista appena 17 chilometri da Ouahigouya. Un breve tragitto diventato sempre più rischioso, negli ultimi mesi. Questo comune, infatti, come tanti della zona frontaliera con il Mali, è finito nel mirino del terrorismo. Che si viaggi su una vettura privata o su una automobile con il logo di una ong, il rischio di dare nell’occhio è alto. Allora per raggiungere Bango la moto non è un’opzione, ma un obbligo.

Zona rossa

Partiamo alle 08:15 da Ouahigouya. L’atmosfera, sulla moto, è pesante. Tento allora di intavolare una discussione con l’animatrice. È l’unica a cui l’ong affida la missione di recarsi in “zona rossa”. Parlando il mooré e il fulfuldé (lingua peul), quando le capita di incrociare gli “uomini armati non identificati” riesce a dialogarci, spiegando loro la ragione della sua presenza e l’importanza dei progetti umanitari per i beneficiari, fra cui ci sono anche donne e bambini dei gruppi terroristi.

Facciamo benzina alla penultima stazione di servizio prima dell’uscita della città, sulla cosiddetta “strada per il Mali”. L’animatrice prende il telefono dalla borsa e cancella tutti i video e i messaggi d’allerta. Nelle perquisizioni gli uomini dei gruppi armati controllano il contenuto dei telefonini. «Non vogliono che osserviamo le loro azioni», spiega prima di riprendere il tragitto. Un silenzio tombale regna sulla moto. L’ultimo benzinaio nei pressi del casello è chiuso. Il casello anche. Fori di proiettile crivellano le porte e le finestre della vicina scuola.

Durante i primi sette chilometri non incrociamo nessuna automobile sulla strada, solo un camion rimorchio che sfreccia a gran velocità e qualche mezzo a due ruote. Sulle moto sono sempre gli uomini che guidano, le donne siedono dietro. Sono tutte decentemente vestite, il velo ben annodato. Mai due donne sulla stessa sella, come noi.

Dopo nove chilometri mi accorgo di portare ancora la catenina alla caviglia. «La tolga immediatamente, madame. Non si sa mai, a questa gente tutto può sembrare sospetto», mi allerta l’animatrice. Purtroppo, però, non ci si può fermare. Sarebbe un rischio. Come fare, dunque, a piegarsi e portare la mano destra verso il piede sinistro per togliere la cavigliera? Un’acrobazia da mal di schiena. Bisogna riuscirci con la mano sinistra. Nonostante la preoccupazione di non farcela, la collanina si toglie velocemente e finisce, insieme a un anello, infondo alla borsa. L’animatrice ridacchia. Per un attimo l’atmosfera sulla motocicletta si stempera.

Contrordine

Da Ouahigouya al villaggio di Bango ci si mette una ventina di minuti. Quando arriviamo, attorno alle 08:55, un signore ci attende sulla strada. «Dobbiamo sbrigarci con la visita. Prima ho provato a chiamarvi per dirvi di non venire, ma non c’era campo», ci dice nervosamente. Bisogna guidare ancora un chilometro per raggiungere le opere realizzate dal progetto. Stamattina presto, ci racconta un abitante del villaggio, diversi individui armati sono sbarcati a Bango. Il comitato d’accoglienza organizzato per l’animatrice dell’ong e la giornalista è stato velocemente disperso.

In giro incrociamo solo qualche uomo e una donna. Chiedo se è possibile fotografare. «Faccia veloce e scatti solo le costruzioni del progetto, non la scuola che è chiusa», risponde un leader comunitario. Poco dopo arriva sul posto un signore con aria sospettosa, che rifiuta d’iscriversi sulla lista dei partecipanti alla visita. La psicosi sale. «Signore fate presto e tornatevene a casa. Quell’uomo è venuto a verificare che foste realmente qui per il progetto. È una loro spia», ci informa un responsabile della comunità. La mano trema, difficile fare foto o video. Una visita che sarebbe dovuta durare mezz’ora conclusa in dieci minuti.

Nel villaggio solo il centro sanitario è funzionante. Qualche donna vi siede in attesa di cure. La scuola resta chiusa, mostrando i segni del passaggio degli uomini armati non identificati: finestre e porte fracassate. Per prudenza un abitante del villaggio ci accompagna. Ciò nonostante, la paura ha ormai preso il sopravvento. Impossibile fare un metro senza gettare uno sguardo dietro di sé.

Sul tragitto del ritorno, a dieci chilometri da Ouahigouya, incrociamo tre giovani in moto. Uno di loro imbraccia un fucile. Sembrano molto di fretta e sfrecciano senza neanche guardarci. A cinque chilometri da Ouahigouya la preoccupazione comincia ad affievolirsi e un barlume di speranza si legge sui nostri volti. Siamo rientrate sane e salve. In questo villaggio terrorizzato a soli 17 chilometri dal capoluogo del nord del Burkina Faso non c’è rete telefonica né connessione a internet.