Ciò di cui si dovrebbe parlare [1]

1. La fine di un universo linguistico-religioso

Se, come credo si possa dire, le religioni sono forme linguistiche con cui gli uomini cercano di rappresentare il divino e tentano una relazione con esso, c’è oggi un consenso crescente[2] attorno all’idea che i linguaggi propri del cristianesimo-cattolicesimo, maturati nel corso dei primi secoli dell’era cristiana e consolidatisi nel corso del Medioevo, non siano più in grado di svolgere quelle funzioni in modi che possano risultare interessanti per gli uomini e le donne di oggi.

La riflessione teologica ha percorso parecchia strada nel riconoscere il logoramento avvenuto in questa Grande Tradizione e i tentativi di individuare vie nuove sono interessanti e numerosi, ma le sue acquisizioni non sono state rese accessibili e rimangono limitate a ristrette cerchie di studiosi che tendono a parlare tra di loro e sono visti con sospetto dalle gerarchie ecclesiastiche.

Le persone che appartengono o si accostano al cristianesimo-cattolicesimo si vedono ancora costrette a ragionare con categorie di derivazione giudaico cristiana fortemente mediate e trasformate dal pensiero greco (in particolare dal suo sostanzialismo), e a dover ricorrere a rappresentazioni del mondo – dell’aldiqua e dell’aldilà – essenzialmente medioevali. Dante Allighieri docet!

Tutto ciò da un lato continua a riprodurre forme del religioso di stampo nostalgico-tradizionalista, lasciando ampi settori della religione del popolo in balia di tale sensibilità, dall’altro rende sostanzialmente irricevibile, perché poco interessante, un messaggio evangelico che appare incapsulato in forme concettuali e rappresentazioni premoderne.

In conseguenza di ciò il corpo vivente del popolo cristiano invecchia, si riproduce in forme antiche e manifesta un deficit cronico di uomini e donne capaci di mediare e di conciliare la loro esperienza di fede con quella condizione moderna e postmoderna nella quale vivono.

2. L’incrinarsi del sistema ecclesiastico

In stretta connessione con quanto descritto la struttura portante della chiesa cattolica, costituita dal personale consacrato (preti e religiosi/e) si va ridimensionando sotto il profilo numerico e, quello che più conta, sotto il profilo qualitativo; essa appare molto invecchiata e sempre più spesso caratterizzata da soggettività non selezionate, fragili e inadatte ad affrontare il confronto con il mondo contemporaneo[3].

In conseguenza di ciò le forze portanti che reggono le strutture della chiesa cattolica vanno deteriorandosi con grande rapidità. Nello stesso tempo, i rimedi di cui si discute appaiono profondamente inadeguati. Quella che dovrebbe porsi oggi come una riflessione sistemica sulla “presenza di chiesa” appare ben al di sotto del necessario e di quanto a suo tempo si riuscì a concepire in occasione del Concilio di Trento. Prova ne sia che la discussione sulle parrocchie, le unità pastorali, le collaborazioni, ecc. impiega un linguaggio che è quello delle organizzazioni in via di “ristrutturazione”.

Allo stesso modo la centralità della distinzione, ma meglio sarebbe dire della frattura (qualcuno usa la parola scisma), tra consacrati e non che ha dato origine a quello che oggi viene chiamato “clericalismo” – in sostanza a un potere sacralizzato che produce nel contempo pericolose derive e deleghe invalicabili – viene scossa alla radice dalle questioni poste dalle differenze di genere, dallo stillicidio delle notizie sulla pedofilia, dall’oscurarsi di quei carismi d’ufficio che caratterizzavano un tempo le funzioni ecclesiastiche.

3. Ciò di cui non si vuole parlare

I processi di avvitamento e declino che derivano da quanto appena visto stanno assumendo oggi una velocità imprevedibile solo qualche anno fa. Tanto che le voci che non escludono una sorta di “implosione” della chiesa cattolica, almeno nei paesi occidentali, o quanto meno la fine di un’epoca della chiesa cattolica, si fanno sempre più frequenti. Solo per citare alcune voci cfr. De Giorgi, Del Sol, Halik, Hervieu Léger, Riccardi, Salmann, Theobald, Zander.

E, al di là di ipotesi “catastrofiche”, l’atteggiamento con cui molti uomini di chiesa vivono il proprio servizio appare sempre più caratterizzato dal disagio che comporta vivere in una organizzazione in declino, forse in decadenza, che richiede impegni crescenti nello stesso tempo in cui appare sempre meno in grado di offrire motivazioni adeguate e di garantire le soddisfazioni che in passato derivavano dall’esercizio del potere o dal progredire dell’annuncio cristiano. Considerazioni analoghe si potrebbero fare, mutatis mutandis, per molti laici impegnati.

In questo quadro è cruciale rilevare che, sia rispetto alle questioni poste al primo che al secondo punto, si manifesta in una parte nettamente maggioritaria della gerarchia cattolica un sostanziale rifiuto ad affrontarle nella loro radicalità e gravità. Permanendo questo atteggiamento è necessario a interrogarsi in merito a due domande:

  1. Come immaginiamo il futuro del cristianesimo-cattolicesimo? Cosa possiamo supporre che avvenga dopo che l’architrave sarà crollato?
  2. In quali modi si può stare dentro questi processi apparentemente inarrestabili e in un quadro ecclesiastico che si rifiuta di affrontare le questioni qui brevemente sollevate?

 8 ottobre 2021

 

[1] Riporto qui alcune considerazioni sul futuro della Chiesa Cattolica scritte dopo una serie di scambi informali avuti con persone che condividono le preoccupazioni espresse.

[2] In ambienti di un certo tipo naturalmente. Si tratta di circoli teologici e intellettuali.

[3] Ciò avviene anche perché tra le coorti in ingresso alla condizione di consacrati vi è una sovra-rappresentazione di vocazioni provenienti da ambienti che, sentendosi minacciati dal procedere della modernità, reagiscono con un maggior numero di vocazioni.

P.S. Chi ha scritto nutre ancora la speranza di essere smentito dal processo sinodale recentemente avviato, quanto meno rispetto alla disponibilità a parlare dei temi indicati.