Tre domande sulla nonviolenza

Il 1° gennaio 2017 ha visto la luce in Vaticano il nuovo Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano integrale che d’ora in poi aiuterà la chiesa a promuovere in modo più efficace i beni della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato, oltre che della sollecitudine verso i migranti, i bisognosi, gli ammalati e gli esclusi, le vittime dei conflitti armati e delle catastrofi naturali, i carcerati, i disoccupati, le vittime di qualunque forma di schiavitù e tortura. “Ogni azione in questa direzione – ha scritto il papa nel suo messaggio per la pace uscito in concomitanza con l’istituzione del nuovo dicastero – contribuisce a costruire un mondo libero dalla violenza, primo passo verso la giustizia e la pace”.

Contribuisce anche – ed è questa la novità – alla diffusione e al consolidamento di una concezione più politica e istituzionale della dottrina e della pratica della nonviolenza. Non a caso il papa auspica che dal livello locale e quotidiano fino a quello dell’ordine mondiale la nonviolenza possa diventare stile caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle nostre azioni, della politica in tutte le sue forme. Auspicio importante in quanto associando la dottrina e la pratica della nonviolenza all’istituzione del nuovo dicastero sembra che avalli il passaggio da una concezione prevalentemente pedagogica, educativa, della nonviolenza a una concezione più politica e istituzionale.

In Italia la dottrina della nonviolenza non ha mai avuto una considerazione molto alta. Le poche voci relativamente autorevoli che ad essa dicevano di ispirarsi sono rimaste di fatto  isolate se non misconosciute. Non hanno mai avuto molti rapporti col mondo culturale e con le forze sociali e politiche. Qualche decennio fa per la verità ci fu un certo risveglio d’interesse per la nonviolenza, ma fu un fenomeno sostanzialmente effimero che si espresse soprattutto come importazione di mode rapidamente consumate.

Attualmente la situazione vede da una parte il persistere di una certa chiusura della nostra vita  sociale e culturale che di questa dottrina coglie spesso gli aspetti più superficiali ed epidermici. Dall’altra registra con interesse l’appello del papa a rileggere la nonviolenza in prospettiva non solo pedagogica e individuale, ma anche politica e istituzionale.

Di qui tre domande che interpellano rispettivamente le religioni, i cristiani e i cattolici sulla nonviolenza. La prima potremmo formularla così: la dottrina della nonviolenza ha un’origine e uno sviluppo autonomo, razionale, oppure rimanda a una concezione religiosa della vita? Il problema, diciamolo subito, è complesso e molto controverso. Personalmente ritengo che una testimonianza di amore per gli altri tanto radicale e profondo come quello di chi professa e pratica la nonviolenza implichi una concezione fondamentalmente religiosa della vita. Che non sempre e non necessariamente si deve rivendicare in modo formale, esplicito, e tanto meno esclusivo. Non fosse altro per il fatto che Dio nessuno l’ha visto mai e non è quindi molto opportuno chiamarlo in causa a ogni piè sospinto.

La seconda domanda è più specifica e interpella in particolare i cristiani: è possibile stabilire un confronto tra la dottrina della nonviolenza e il messaggio evangelico? Anche a questa  domanda non è facile rispondere. Allo stato attuale degli studi non sembra possibile desumere direttamente dal vangelo una dottrina della nonviolenza come viene intesa oggi. Pertanto se il riferimento è all’insegnamento e alla vita di Gesù di Nazareth non vi sono problemi. Il suo messaggio e il suo comportamento nei confronti dei vari rappresentanti e funzionari dell’impero romano, potenza occupante il suo paese, è di assoluta nonviolenza. Si direbbe anzi che per molti suoi contemporanei e anche discepoli sia stato proprio questo il vero ‘scandalo’. Altra ovviamente è la vicenda del cristianesimo e delle varie confessioni cristiane nel corso della storia.

La terza e ultima domanda interpella più direttamente i cattolici nella misura in cui solleva il problema del rapporto tra il comportamento ‘scandaloso’ di Gesù e la chiesa, il suo annuncio, la sua testimonianza. Un punto, questo, che segna la linea di demarcazione tra messaggio evangelico e credibilità dell’annuncio. Se tutti i cattolici offrissero l’altra guancia, facessero mille passi con il nemico, offrissero la propria tunica in cambio del mantello, in una parola se a livello individuale, familiare e sociale tutti i cattolici facessero proprio e praticassero lo stile di vita nonviolento di Gesù, quale forza d’urto e di convinzione assumerebbe il messaggio evangelico!  Ma ecco il problema: sarebbe sufficiente tutto questo per elaborare una dottrina e una pratica della nonviolenza in riferimento alle situazioni concrete che si vengono configurando nella storia? Certamente no, pensiamo al principio della legittima difesa che anche Gesù, sia pure in modo nonviolento, ha praticato quando è stato prima accusato, poi perseguitato, e infine crocifisso, rispettivamente dagli scribi e farisei durante la sua vita pubblica, dai capi del sinedrio dopo il suo arresto, e infine dai rappresentati legali dell’imperatore di Roma.

Considerato in questa luce l’appello del papa alla nonviolenza perde ogni carattere moralistico e astratto per diventare concretamente una verifica e uno stimolo verso la maturazione di una nuova coscienza di pace. “Chiedo a tutti noi – scrive il papa – di attingere alla nonviolenza nelle profondità dei nostri sentimenti e valori personali. Che siano la carità e la nonviolenza a guidare il modo in cui ci trattiamo gli uni gli altri nei rapporti interpersonali, in quelli sociali e in quelli internazionali”. Una richiesta e un auspicio che papa Francesco rivolge a tutti e a ciascuno, ma che noi cattolici siamo invitati ad accogliere e portare a compimento con responsabilità e impegno speciale. Sostenuti e accompagnati ora anche dal nuovo Dicastero per il Servizio allo Sviluppo Umano integrale da poco istituito.