Imparare a vedere, voler vedere

A partire dall’analisi “narrativa” fatta da A. Castegnaro vorrei fermarmi su tre problemi, seri non solo in relazione alla terribile vicenda della guerra.

  1. Il primo riguarda i meccanismi psichici profondi che emergono in situazioni così distruttive come quelle che ci vengono mostrate oggi dalla guerra, materiale e simbolica. Antiche letture di fine anni ’60 e dopo, fatte a partire dall’Alberoni dello “stato nascente”, lo psicoanalista F.Fornari ecc., hanno fatto capire alcune tesi di M.Klein sui meccanismi psichici profondi. Non stiamo qui a farne una disanima, ma uno è pertinente e fondamentale in questa condizione di globalizzazione e localismi: il meccanismo schizo-paranoideo, che tradotto per me indica quelle situazioni in cui un soggetto (persona o gruppo) si separa, taglia nettamente la propria relazione con l’altro, considerando se stesso l’oggetto buono totale, da amare, e l’altro l’oggetto cattivo totale, da odiare, possibilmente delegittimare e distruggere (i movimenti fanno così nelle fasi radicali di lotta per il cambiamento contro le istituzioni “dominanti”). Nell’individualismo imperante, personale, di gruppo, etnico, mi sembra che questa pulsione alla separazione io-altri, all’idealizzazione di sé ed al disprezzo totale dell’altro fino a cercare di distruggerlo, sia forte e diffusa anche tra di noi, quando uomini uccidono donne, un gruppo religioso ne sottomette o distrugge un altro, un’area confessionale cattolica disprezza ed espunge un’altra, una etnia che si ritiene superiore ne assoggetta un’altra per assimilarla a se stessa o cancellarla. Un meccanismo profondo, pre-sociale e sociale, distruttivo di tutto. Non sono soltanto problemi psichiatrici.

2. Il secondo tema-problema, che mostra una chiara dinamica di separazione di sé, oggetto buono totale, dall’altro cattivo addirittura cancellato ritualmente, riguarda il preesistente ma recente scisma religioso-culturale-politico tra Chiesa ortodossa ucraina di Kiev legata a Costantinopoli (nazione che conserva comunque una parte di chiesa ucraina fedele al patriarcato di Mosca), e chiesa ortodossa russa del patriarcato di Mosca. Si tratta di separazioni religiose-culturali-politiche, con elaborazioni storiche ed espressioni che noi occidentali fatichiamo a comprendere, essendo legate ai linguaggi ed alle tradizioni assolutamente radicate in quelle comunità e in quelle storie. Ma sono separazioni che vanno totalmente contro quello spirito che il cristianesimo in sé, e per la sua parte la Chiesa cattolica dal Concilio in poi, ha sempre cercato di affrontare e per il possibile superare con messaggi, iniziative, incontri, per rigenerare concordia, attraverso dialoghi, soprattutto cooperazioni nella carità, ma anche in tematiche teologiche fondamentali (con le chiese della Riforma); con le chiese che hanno una viva elaborazione teologica. Le dichiarazioni religioso-culturali della Chiesa russa hanno mostrato una posizione globalmente in contrasto con tutto il percorso ecumenico degli ultimi sessant’anni, con problemi non solo tra Mosca e Kiev, ma anche tra gli ortodossi ucraini affiliati a Mosca in contrasto con il Patriarca Kyrill, con questi che in occidente è sostenuto dai cattolici di destra estrema alla Viganò e contemporaneamente in contrasto totale con gli orientamenti vaticani attuali, espresso dal Papa con la ‘Fratelli tutti’. Questo conflitto tra chiese è a mio avviso una questione importantissima e delicatissima, perché non si gioca né con armi né con sanzioni, ma richiamandosi a parole e valori evangelici, a principi, a fondamenti di fede e di etica, ed anche a relazioni concrete, ad incontri, a documenti sottoscritti in comune, ma da una delle parti messi in sospeso. Spiritualità e politica si incontrano, ma per separare invece che unire, o almeno convergere, con-vivere, aiutare a vivere e non aiutare chi uccide e distrugge. Contraddizioni con armi simboliche ma socialmente pesantissime, e di scandalo universale. E i nostri ‘scismi sommersi’ o ‘emersi’?

  1. Il terzo problema, che è legato ad entrambi i precedenti, è intrecciato con il valore-peso dell’ethnos, dimensione fondamentale del “capitale sociale” di una collettività. Ogni collettività è tessuta di reti di relazioni, di modi di intendere le cose, di istituzioni, associazioni, partiti, comunità e credenze religiose: la tengono unita con un riconoscimento reciproco, legami di fiducia, che possono diventare forti e dare una identità che in alcune condizioni storiche e culturali è spinta a chiudersi. L’importanza dell’ethnos, dell’identità di un popolo, di una comunità con tradizioni (antiche o meno) più affettive che razionali, è legata all’ethos, al carattere delle persone e della comunità, alla morale condivisa almeno pubblicamente, alla religione che contribuisce a sostenere, simbolizzare e radicalizzare il senso dell’essere uniti. Nella nostra società l’importanza dell’ethnos sembrava declinare con lo sviluppo economico, l’istruzione diffusa, la razionalizzazione della vita, invece anche in Italia dagli anni ’80 è cresciuto, ad esempio al nord, con la creazione di un partito tuttora centrale, forse benvisto da una parte del popolo cattolico. Il peso importante in Africa o in America latina sembrava derubricabile a correlazione con il “sottosviluppo”; poi con il dissolversi dell’ex Yugoslavia si sono visti, vicini a noi, conflitti etnici terribili. Pure con lo scioglimento dell’Unione sovietica anche nei paesi entrati in Europa si sono viste riaffermarsi delle identità etniche forti in Polonia, Ungheria… Il problema dell’identità collettiva è un problema per gli “altri” o lo è anche per noi, o noi abbiamo soltanto identità individuali? Abbiamo una identità “cattolica” con chi, ci riconosciamo con chi, chi ci è talmente antipatico che non vorremmo essere mai identificati con lui o con loro?