SEMPRE A PROPOSITO DI “IRRILEVANZA VENETA”

Il Forum di Limena ha invitato a una riflessione su questo interrogativo: “Il Veneto, la politica, la classe dirigente, presuntuosi ma insignificanti?” Cercando di ragionare in particolare su tre punti: è fondata la percezione di una irrilevanza veneta? Genesi e ragioni di una presunta irrilevanza. C’è una prospettiva?

L’espressione “irrilevanza” è una espressione in qualche modo scivolosa. Può avere molti usi. Può essere anche un alibi impotente: “gli altri non ci capiscono”, può essere segno di una rassegnazione, può essere espressione di una presa di coscienza sulla necessità di reagire.

Nella mia lunga esperienza parlamentare ho avuto naturalmente modo di girare l’Italia, di confrontarmi con pezzi di classe dirigente delle diverse regioni e se c’è una costante che ho trovato è proprio questa: di considerarsi ogni territorio capitale di qualcosa e di sentirsi tutti non sufficientemente compresi dal potere centrale. Che si trattasse del piccolo Molise o della potente Lombardia più o meno questo era l’atteggiamento prevalente. Per fortuna non sono mai mancati anche politici più consapevoli della realtà e dei propri doveri: vedere ciò che si può fare, invece di chiedere che altri facciano.

Rilevanza e irrilevanza

Impossibile poi generalizzare. Ci sono settori in cui si è del tutto rilevanti: pensiamo solo per fare due esempi a Luxottica piuttosto che al gruppo Carraro, o come l’Aeroporto di Venezia sia non solo il terzo aeroporto italiano, ma sia diventato una aerostazione che non ha nulla da invidiare per qualità architettonica e accoglienza ai migliori aeroporti europei. Manca solo il collegamento ferroviario, ma sta arrivando.

Nel 2017 organizzammo con Gigi Copiello un convegno con un titolo suggestivo: “Storie potenti, prepotenti, irrilevanti”. Tra i relatori c’erano Mario Carraro, Ferruccio De Bortoli, Cesare De Michelis. In fondo il tema era quello dell’incontro odierno. In particolare si voleva indagare il ruolo della borghesia produttiva veneta.

Tra le storie irrilevanti dovremmo evidenziare ad esempio le vicende della carta stampata veneta. Il quotidiano storico Il Gazzettino era diventato con la caduta del fascismo di proprietà della Dc, negli anni ’70 il gruppo dirigente veneto (Bisaglia in testa) decise di affidarlo alla borghesia produttiva, allora con una cordata guidata da Luigino Rossi. Giorgio Lago cercò di farne una testata con l’ambizione di costruire una maggiore consapevolezza di sé della società veneta. Sappiamo come è andata a finire: la borghesia produttiva si ritirò, dimostrando scarsa ambizione e vendette la testata al “romano” Caltagirone. Per altri motivi anche i quotidiani locali del gruppo Gedi, che erano nati con

l’ambizione di un racconto diverso, per dare espressione ad una cultura progressista, sono diventati in sostanza il dorso locale del quotidiano La Stampa. Una volta si diceva del Veneto nano politico e gigante economico. Qui la politica aveva passato la mano confidando in una forza che non c’è stata della borghesia imprenditoriale.

Quale Veneto, poi?

Ci sarebbe da fare anche un ragionamento su cosa sia il Veneto oggi, vale per il Veneto ma anche per altre regioni. Confini disegnati sostanzialmente sulla base delle province napoleoniche e per il Nord Est, o le Tre Venezie come si diceva allora, fortemente condizionati dalle vicende internazionali, con la questione del confine austriaco e quello iugoslavo, con la creazione di specialità regionali.

C’è il Veneto della grande area metropolitana incompiuta tra Padova, Venezia e Treviso, il Veneto della pedemontana manifatturiera, il veronese che guarda alla Lombardia, la città turistica internazionale distesa sulle coste dell’Adriatico, ecc. Con vocazioni, aspettative, potenzialità diverse.

Fatte queste distinzioni possiamo dire che ciò che ci interessa è la rilevanza complessiva di un sistema territoriale, la sua capacità di elaborare una visione di sé, orientare le risorse strategiche che possiede, costituire perciò un punto attrattivo per la comunità nazionale. Con l’ambizione, migliorando sé stessi, di contribuire al cambiamento dell’Italia: perciò dotarsi di conoscenze, competenze, visione generale.

Storie rilevanti, storie irrilevanti

Racconto due storie, una negativa del presente ed una positiva del passato.

Quella negativa riguarda la levata di scudi generale dei gruppi dirigenti veneti (Parlamentari, consiglieri regionali, Sindaci, Camere di Commercio, categorie economiche, ecc.) alla notizia che il Recovery Plan non conteneva il finanziamento del completamento dell’alta velocità Milano Venezia.

Perché notizia negativa? Perché si è irrilevanti quando ci si agita sulla base di slogan astratti. In questo caso se si è gruppo dirigente si deve ben sapere che era impossibile inserire il completamento della linea tra i progetti finanziati con il Piano perché possono essere finanziati solo progetti immediatamente esecutivi, da completare nel 2026. In questo caso il progetto manca, per responsabilità precipua delle istituzioni venete che non hanno saputo risolvere per tempo il nodo dell’attraversamento di Vicenza. Poi occorre smettere di parlare di alta velocità, perché la linea è progettata per l’alta capacità. Difatti il risparmio di tempo sull’intera tratta Milano Venezia sarà di 10 minuti, che si potrebbero risparmiare semplicemente con una migliore organizzazione dei servizi di taxi, di parcheggio, di linee pubbliche, ecc. sui nodi della rete. Ma l’alta capacità è importante comunque per consentire un maggiore traffico merci e passeggeri. Più treni sulla linea Milano Venezia avvicinano il capoluogo lombardo con la sua concentrazione di servizi rari al nostro territorio. Ed è interesse delle Ferrovie avere una linea funzionale. Difatti il finanziamento è stato inserito nei fondi aggiuntivi, non legati alle prescrizioni europee. Perché interessa alle Ferrovie soprattutto.

La storia positiva ha radici lontane. Quando negli anni Sessanta del secolo scorso, si costituì, con sede a Casalecchio sul Reno, il Cineca, un consorzio tra sette università, di cui sei del Nordest, per gestire un centro di calcolo automatico a servizio delle esigenze universitarie. Tra gli ostinati promotori di questa iniziativa c’è il padovano professor Mario Volpato, matematico a Ca’ Foscari e poi a Padova. Divenuto Presidente della Camera di Commercio di Padova (allora la nomina era politica ed il Ministro Luigi Gui scelse bene) Volpato capisce subito che le Camere di commercio sono detentrici di dati sensibili di grande utilità. Solo che i singoli archivi hanno un significato limitato. Sono in grado di diventare un potente strumento di trasparenza delle attività imprenditoriali e di analisi economica solo immaginando un archivio unico, interconnesso, accessibile ad ogni operatore interessato.

Inizia l’impresa del professor Volpato: vincere le resistenze burocratiche, le gelosie delle singole Camere, gli interessi delle aziende informatiche che avevano tutto la convenienza ad avere una molteplicità di clienti in condizioni di debolezza, piuttosto di un cliente robusto e competente. Nel giro di pochi anni l’ostinazione di Volpato dà i suoi frutti, associando progressivamente tutto il sistema camerale. La Cerved gemma poi altre società operative come Infocamere. Si crea nel Veneto un polo occupazionale di un migliaio di dipendenti qualificati, si genera un nodo di interesse europeo.

Si è stati rilevanti mettendo insieme competenze, risorse esistenti nel territorio, visioni generali, creando lo strumento per la soluzione di un problema nazionale.

 Un limite culturale

Queste due storie ci aiutano a capire che il rischio dell’irrilevanza è legato ad una prospettiva culturale sbagliata, sbagliata ma purtroppo diffusa, non solo dalle parti della Lega. L’idea di una singolare specificità del Veneto e l’idea di una possibile autosufficienza, per cui non occorrerebbe legare lo sviluppo del territorio ad una visione complessiva dello sviluppo del paese.

Ho sottolineato qualche anno fa in un saggio per Franco Angeli un paradosso che ci riguarda: quando abbiamo compiuto il vero salto del miracolo economico da regione agricola a piattaforma manifatturiera europea lo abbiamo fatto senza vantarcene; abbiamo incominciato a vantarcene quando la locomotiva ha preso a rallentare.

Così scrivevo: “Tuttavia è importante sottolineare che la coscienza di questo miracolo e della specificità del modello veneto è un fatto recente, posteriore al farsi del “miracolo”. Per merito prevalente di Giorgio Lago, direttore del quotidiano allora più diffuso in Veneto “Il Gazzettino”, che ne ha fatto negli anni ’80 una battaglia civile e giornalistica, si è acquisita una forte coscienza di ciò che la società veneta ha saputo realizzare nel campo della economia e dello sviluppo.

L’ambizione di Giorgio Lago era di sviluppare una iniziativa culturale diffusa per ricreare una maggiore consapevolezza delle realizzazioni e soprattutto delle potenzialità della società veneta: trasformare la forza economica in una leadership anche politico-istituzionale per una profonda trasformazione delle strutture istituzionali; nella visione di Giorgio Lago impossibile che questa trasformazione avvenisse da Roma, bisognava costruirla a partire dai territori, con una alleanza dei ceti produttivi, degli operatori di cultura con la rete istituzionale offerta dai Sindaci, con l’investitura autorevole data dalla elezione diretta e la rivendicazione di un federalismo coraggioso che avrebbe dovuto trovare nella Regione il luogo per innovative sperimentazioni. Giorgio Lago pensava di costruire questa più consapevole coscienza collettiva per rafforzare la capacità di approfondire le sfide che si stavano profilando. Bisogna constatare che questa tardiva presa di coscienza è stata piuttosto utilizzata nell’arena politica con un profilo di un impotente rivendicazionismo”.

Abbiamo perso una occasione: non alcuni aspetti identitari e specifici come risorsa ma piuttosto un ostacolo a vivere la modernità e a predisporre i presidi adatti per gestire il mutamento comprendendo i flussi della storia.

La radice prevalente dell’irrilevanza sta in questa idea isolazionistica, in cui raccontiamo tra di noi delle storie che sono molto lontane della realtà, assolvendoci dalle debolezze e rinunciando a costruire percorsi nuovi, con alleanze forti tra istituzioni, progetti pubblici, impresa e società, idee forti di sviluppo capaci di attrarre l’interesse nazionale e alleanze tra territori.

 Confronti con il passato: adelante con juicio

I paralleli con il passato non hanno molto senso, o meglio richiedono studi approfonditi. È cambiata totalmente l’organizzazione sociale, il modo di costruire legami, le forme della democrazia rappresentativa, il ruolo delle grandi agenzie educative, ecc.

La riorganizzazione della vita civile e politica della comunità veneta dopo il fascismo ha sfruttato ampiamente un sedimentato capitale sociale offerto in gran parte dalla comune appartenenza alla diffusa fede cattolica. In forme diverse ma simili è un capitale sociale che viene valorizzato anche nell’ambito della sinistra comunista e socialista: anche qui leghe, sindacato, patronati e una appartenenza ideale al mito sovietico.

Non è un caso che i leader politici emergenti sono leader del nuovo partito maggioritario ma anche leader delle organizzazioni sociali: Mariano Rumor è segretario provinciale delle Acli vicentine, costruendo per questa via solidi riferimenti nel mondo del lavoro. Luigi Gui diventa presidente dei Coltivatori Diretti padovani; certo non un tecnico, perché era professore di liceo, ma in grado di guidare ed organizzare una forza sociale cospicua: basti pensare che nel 1948 il 40% dei tesserati alla Dc padovana erano coltivatori diretti. Questa presenza negli interessi organizzati presupponeva una profonda conoscenza delle realtà sociali, del modo di essere della società. Ricostruire la rappresentanza politica a partire dalla struttura sociale. Tra l’altro questo è un aspetto che è stato largamente trascurato da una parte della storiografia, che ha ristretto la storia della Democrazia cristiana veneta ad una dimensione legata esclusivamente all’organizzazione parrocchiale.

Un altro momento interessante nella storia politica della Regione è quello dell’avvio della esperienza regionale. Presidente del Consiglio è il vicentino Mariano Rumor che vede esplicitamente nell’attuazione dell’istituto regionale la via per associare alle responsabilità istituzionali il maggior partito di opposizione: in un periodo di forti tensioni sociali e con l’affacciarsi del terrorismo rosso e nero avverte la necessità di rinsaldare le basi democratiche del paese.

La costituzione dell’Ente Regione è anche l’occasione della formazione di un nuovo ceto politico, di nuove forme di rappresentanza territoriale. E’ interessante notare che non si attinge al mondo parlamentare nazionale ma piuttosto prevalentemente a solide esperienze maturate nel sistema delle autonomie locali e delle organizzazioni sociali. Difatti Presidente della Giunta regionale per i primi dieci anni à l’ing. Tomelleri, proveniente dalla guida dell’Amministrazione provinciale di Verona e gli succede Carlo Bernini, presidente della provincia di Treviso.

C’è anche l’ambizione di una capacità di lettura del territorio. Il Piano di Sviluppo regionale 1966 –1970 predisposto da una equipe guidata dal prof. Innocenzo Gasparini elabora il concetto di policentrismo veneto, che visto con il senno di poi era di una straordinaria modernità, perché in questo senso si è evoluto un mondo che si caratterizza per nodi di una rete. Che poi questa impostazione abbia giustificato l’incapacità di compiere scelte scomode, individuare priorità territoriali e infrastrutturali è un’altra questione.

Se si vanno a leggere gli atti dei lavori per la redazione dello Statuto regionale si avverte una vera tensione costituente, che porta ad immaginare una regione programmatrice più che amministratrice (previsione sconfitta dalla realtà) ed anche una impostazione originale del concetto di rappresentanza, tanto che l’art. 2 dello Statuto recita: “L’autogoverno del popolo veneto si attua in forme rispondenti alle caratteristiche e tradizioni della sua storia”. Le radici culturali di questa impostazione nulla hanno a che fare con la narrazione leghista che verrà dopo, ma affondano nel terreno fertile del popolarismo sturziano.

La rottura tra rappresentanza e territorio

Si è osservato giustamente che nella composizione dei governi della Repubblica sempre più marginale è divenuta la presenza di esponenti della politica veneta. In effetti il paragone tra le presenze attuali e quelle della cosiddetta prima repubblica, meglio la repubblica dei partiti, registra un enorme divario. Pensiamo al Governo Rumor che ha portato alla nascita delle regioni: allora il Veneto aveva il presidente del Consiglio, 3 ministri e 4 sottosegretari, nella legislatura 1972-1976 nei governi Moro il Veneto ha 5 ministri e 3 sottosegretari, poi c’è un progressivo prosciugamento della rappresentanza, da zero ministri nei primi governi Berlusconi ad un paio con i governi Prodi.

Occorre dire che le motivazioni sono più complesse di quanto possa apparire. Diverse leggi elettorali, scomparsa del voto di preferenza e indebolimento del rapporto con il territorio e del ruolo delle strutture partitiche sono fattori che portano a logiche diverse nella composizione dei governi. La geografia politica contava molto nella composizione dei governi della prima repubblica, perché c’era un rapporto stretto con la forza elettorale che esprimevano i territori. Governi legati alla rappresentanza elettorale significavano investimenti sui consensi futuri. Gli stessi sottosegretari, oggi ridotti al ruolo di poco più di impiegati, avevano una propria forza elettorale e potevano competere con il proprio Ministro. Se guardiamo alla composizione del governo Draghi ci possiamo rendere conto che non vi è alcun rapporto con la rappresentanza territoriale, vale per il Veneto ma anche per altre regioni di rilevante peso demografico.

Non conta la rappresentanza territoriale, contano evidentemente altri criteri: competenze conosciute e maturate a livello nazionale, presenza nei circuiti dei poteri statuali, sistema di relazioni. Qui il Veneto dimostra purtroppo una debolezza. Pensiamo alle nostre Università, pur importanti. Eppure l’ultimo ministro pescato dal mondo universitario veneto è Livio Paladin, con Fanfani e con Ciampi. Oggi fuori dal circuito governativo possiamo citare il prof. Giorgio Palù, presidente dell’Agenzia italiana del Farmaco, o con ruoli diversi la prof.ssa Antonella Viola, diventata star tra i virologi televisivi di successo…

D’altra parte anche nel mondo dell’associazionismo economico la rappresentanza veneta non ha avuto mai alcun ruolo significativo, pur essendo una piattaforma territoriale di primaria importanza. I tentativi di raggiungere la presidenza nazionale di Confindustria sono sempre falliti, per mancanza di relazioni sufficienti e per la divisione delle varie associazioni venete. Lo stesso vale per Confartigianato, nonostante la potenza territoriale, anche se qui dobbiamo segnalare la lunga presenza di Franco Giacomin come Segretario nazionale (1994 – 2002), una gestione caratterizzata da profonde innovazioni nella cultura della rappresentanza e del ruolo dell’impresa artigiana nel sistema economico.

 Dal protagonismo al piagnisteo?

Questa marginalità sistemica, che non è dunque solo politica partitica, è il frutto di una impostazione culturale sbagliata. L’idea di una autosufficienza che poi è fuori dalla pratica quotidiana del mondo dell’economia, e che pure trova ampio consenso nell’opinione pubblica. Pensiamo alla singolare vicenda del referendum sull’autonomia promosso da Luca Zaia, talmente popolare nel senso comune da portare il principale partito dell’opposizione, il Partito democratico, ha schierarsi per il sì, sia pur con la qualificazione di sì critico. Dobbiamo rileggere le trionfali dichiarazioni di Luca Zaia: “È il big bang delle riforme istituzionali, è la caduta del muro di Berlino. Ora posso dirlo: il Veneto si candida a laboratorio delle autonomie… Vince la voglia di dire che siamo padroni a casa nostra. A Roma dovranno tenere conto di questo risultato, il federalismo ora è una via obbligata”.

Non è successo nulla di tutto questo non per l’avarizia di Roma, ma perché era sbagliata l’impostazione, l’idea di ottenere ciò che non è previsto dalla Costituzione e senza la costruzione di un percorso condiviso.

La cultura dei padroni a casa nostra è una cultura sbagliata, una illusione ottica. Perché nella vita quotidiana di chi produce ricchezza, cultura, comunicazione ciò che conta nel successo è l’apertura, il sistema di relazioni, la competizione nel mercato globale. Più saggiamente la Regione Veneto intitolò il secondo piano regionale di sviluppo “Veneto terra di relazioni” che corrispondeva ad una necessaria ambizione e se vogliamo per i cultori del venetismo, era più in sintonia con la storia secolare della Serenissima.

Queste sconfitte politiche non hanno portato tuttavia ad una riflessione critica. Anche questo è un fatto nuovo, segno di debolezza di pensiero. Si preferisce una logica da piagnisteo: la colpa è degli altri che non ci capiscono. Non è mai stato così nella storia dei veneti. Un popolo capace di affrontare le avversità della storia, senza spaventarsi: capaci di abbandonare la propria piccola patria per cercare altrove la fortuna, per poi tornare a far ricca la propria terra, un popolo di contadini diventati operai e poi imprenditori, contando sull’abilità delle proprie mani e sulla determinazione della volontà.

Un atteggiamento lontano da quello fatto di forza di carattere e di vitalità ben descritto da un proverbio veneto che mi ricordava spesso il mio amico Ulderico Bernardi “come noialtri non ghe ne è altri, se ghe ne è ancora che vegna fora”.

Sulla strada sbagliata che è stata intrapresa non si ottengono significativi risultati, tanto che bisogna dar ragione a quello che scriveva il vicentino Guido Piovene nei lontani anni ’50: “il venetismo è una potente realtà della fantasia che non dà noia al parlamento”.

 Che fare?

L’analisi critica serve a poco se poi non ci si interroga sul che fare. In fondo la domanda che dobbiamo porci è la stessa che si poneva Vladimir Lenin all’inizio del secolo scorso in un fortunato saggio “Che fare? Problemi scottanti del nostro movimento”. Problemi scottanti del nostro Veneto potremo dire noi.

Intanto avere coscienza dei punti di debolezza e quelli di forza. Sono molti gli uni e gli altri, bisogna uscire dalla sloganistica ed affrontare gli uni con coscienza avvertita per correggerli e gli altri per conoscerli e rafforzarli in una visione sistemica.

Dobbiamo essere coscienti che si è realizzata accanto alla robusta crescita del manifatturiero una sorta di desertificazione della infrastrutturazione comunitaria. Lascio stare gli aspetti sociologici che pure contano, perché nel passato sono stati elementi di forza: oggi dobbiamo fare i conti con demografia declinante, rottura delle relazioni familiari, impoverimento del tessuto di relazione sociale, ecc.

Pensiamo al sistema di infrastrutturazione a servizio dell’innovazione economica: la perdita di ogni presidio bancario che abbia la testa nel Veneto, la crisi delle Fiere destinate se va bene a diventare prede di soggetti extra Veneto, idem per le aziende di servizio pubblico, incapaci di fare sistema e fare massa critica nei processi di privatizzazione e aggregazione, le stesse Università pur eccellenti registrano fenomeni di migrazione studentesca verso Università che appaiono più attrattive o capaci di assicurare una occupazione ai laureati in settori innovativi.

Pensiamo alla politica delle infrastrutture materiali: quella ferroviaria in enorme ritardo per responsabilità venete, sia sulle grandi direttrici sia per il trasporto di tipo metropolitano, per quelle stradali nel mentre si rivendicava maggiore autonomia si restituivano alla gestione statale le strade passate alla Regione con le riforme Bassanini, per non parlare della storia infinita della Pedemontana: facciamo noi, disse Zaia, e siamo alla realtà di una strada che per il momento è il troncone autostradale più caro d’Italia.

Il che fare ha a che fare con la consapevolezza che nel nuovo contesto geopolitico la competizione avviene per piattaforme territoriali. Capaci di sviluppare adeguate masse critiche e di attrarre investimenti finanziari, competenze professionali, talenti intellettuali. Sviluppando le risorse presenti e latenti: qualità della vita e dell’abitare, formazione di alto livello, saperi tecnici, ricerca applicata, luoghi di produzione culturale, mobilità efficiente per le merci e le persone, ecc.

C’è la grande città metropolitana del Veneto centrale, inconscius metropolis è stata definita, ci sono le potenzialità di alleanze funzionali con aree contermini, la Fondazione Nord Est ha parlato di pentagono per indicare il territorio che va oltre il Nord est classico, allargandosi alle relazioni con Lombardia ed Emilia Romagna.

Le risorse ci sono, è mancato l’imprenditore politico capace di svilupparle in un progetto integrato. Sviluppare le relazioni tra Università, con la creazione di un grande politecnico a servizio della ricerca applicata, sviluppare l’istruzione tecnica per fornire quadri alla innovazione manifatturiera, riorganizzare le grandi aree industriali in via di dismissione aprendo un nuovo ciclo, guardare in grande con la logistica, tra porto e interporti, rafforzare la mobilità delle persone con connessioni di tipo metropolitano, ecc.

Per questa via si acquisisce rilevanza. L’Emilia Romagna lo sta facendo, eppure non ha più risorse del Veneto, per molti aspetti è una realtà speculare, in più c’è un progetto, una alleanza forte tra amministrazione, ceti produttivi, Università, meno slogan più sostanza.

Si può se si vuole, se non ci si rinchiude in miti ininfluenti e lontani dalla realtà. Ricorro alle sagge parole di Cesare De Michelis a fine secolo scorso, quando metteva in guardia dalla retorica della specificità veneta: “l’identità veneta è ambigua e sfuggente; essa oscilla inquieta tra ansie di autosufficienza e di separatezza e volontà di proiettarsi all’esterno mescolandosi agli altri nel mondo; oscilla caparbia tra l’orgoglio di una tradizione secolare che resite all’usura del tempo e l’ambizione di riconoscere le proprie tracce nella comune civiltà dell’Europa”. Occorre che il pendolo si muova verso la modernità