Di che cosa è fatta questa guerra?

Concentrarsi solo su un’idea determinista di causalità del conflitto amplifica narrazioni di antagonismi che ci trascinano nella spirale della violenza, come se essa fosse l’esito unico e necessario di una causa ineludibile

 

Mentre una pagina tragica di storia si apriva davanti ai nostri occhi con l’invasione russa dell’Ucraina, una parte dell’analisi di questi eventi si è concentrata sulla questione delle cause della guerra nella politica internazionale. Si tratta di un tema classico del dibattito teorico sul quale molto è stato scritto, ma l’attenzione in media quali Twitter si è concentrata soprattutto sulle osservazioni del teorico delle relazioni internazionali John Mearsheimer, esponente di spicco della scuola realista contemporanea.

Mearsheimer è noto in particolare per il tema del realismo offensivo che considera l’attacco militare un’opzione razionale, e dunque giustificata, per la preservazione dello status di potenza dei grandi attori globali; a differenza del realismo difensivo che, invece, sostiene come le potenze egemoni globali beneficino da maggiore prudenza e autolimitazione per evitare i rischi intrinsechi di una ubris imperiale e mantenere uno status egemonico.

Su questi presupposti ne è scaturito un aspro confronto, esacerbato anche dal fatto che una delle parti in causa, la Russia, ha fatto sue le opinioni di Mearsheimer in un recente tweet, schierando dunque il realismo dalla sua parte del conflitto. Un fenomeno simile si è visto nel caso italiano dove, certamente parte di una studiata strategia di guerra dell’informazione, l’ambasciata russa d’Italia ha twittato un pezzo di Barbara Spinelli che in qualche modo riecheggiava gli argomenti realisti di Mearsheimer. In sostanza, l’ipotesi realista è che ciò che ha causato l’invasione russa dell’Ucraina sia da ricondursi al concorso di decisioni politiche dell’amministrazione americana (soprattutto durante l’amministrazione di G.W. Bush), che hanno progressivamente creato l’aspettativa di una possibile inclusione dell’Ucraina nella Nato.

Sebbene questo poi non si sia verificato – il ragionamento prosegue – la rivolta di Maidan del 2014 (supportata dalle potenze occidentali) ha ulteriormente umiliato la Russia in un territorio in cui si aspetta di essere dominatore indiscusso per presunte ragioni storiche ed etniche. Il risultato, dunque, è che questi fattori hanno messo in moto un meccanismo di allerta nella percezione di sicurezza Russa e poi l’intervento diretto di oggi per riaffermare il controllo su un territorio che il nazionalismo russo considera essenziale per il suo status globale.

Il diffondersi di questa ricostruzione ha attirato le ire del fronte opposto nel dibattito teorico, ma anche nel reportage giornalistico degli eventi. L’accusa è che questa spiegazione assolva interamente la Russia da responsabilità dirette circa l’invasione, anzi la giustifichi razionalizzandole. Rappresenta Vladimir Putin e le sue forze come meri esecutori del copione della teoria realista offensiva svuotando l’analisi della responsabilità morale e politica del leader.

Ciò non dovrebbe sorprendere: se si conosce anche solo superficialmente il realismo, si sa che esso pone più spesso l’attenzione sulla natura strutturale dei processi politici internazionali dunque minimizzando l’attorialità (la cosiddetta agency) delle potenze grandi e ancor più quelle piccole coinvolte. Sono il sistema internazionale e la sua struttura, intesa come distribuzione di potere, capacità militari, economiche, e la spazialità geopolitica degli attori in questione (l’Ucraina al crocevia di occidente e Asia, come la Turchia, il Libano o l’Afghanistan) che causano il comportamento delle parti coinvolte, e dunque generano il conflitto. Insomma, i realisti fanno i realisti e la cosa ha creato ire sproporzionate ma anche dubbi legittimi circa l’adeguatezza esplicativa del paradigma realista, visto il mancato riconoscimento di una responsabilità russa, e precisamente putiniana, degli eventi odierni.

Eppure la questione meriterebbe un approccio diverso, che sappia tenere in maggior conto l’evoluzione del dibattito nella teoria delle relazioni internazionali su quella che è la questione vera e propria soggiacente alla polemica anti-realista. La questione fondamentale è il concetto di causa e i suoi assunti epistemologici come parte dell’analisi di fenomeni complessi quali un conflitto di larga scala.

Già dagli anni Novanta e spesso in risposta all’inadeguatezza del realismo palesata dalla fine della Guerra fredda, il costruttivismo si è fatto avanti come modello interpretativo complementare e per certi versi divergente dal realismo e alle sue derivazioni (neorealismo, realismo neoclassico ecc.). Uno degli elementi di contrapposizione tra realismo e costruttivismo è proprio la questione che concerne il concetto di causa. Teorici costruttivisti come Alexander Wendt, per citare un classico, o Milija Kurki, per una trattazione più complessa del tema, hanno ragionato sul fatto che la teoria delle relazioni internazionali (e dunque la nostra più generale interpretazione dei fatti politici internazionali) non possa limitarsi a trasferire una categoria analitica delle scienze dure come quella di “causa” nell’analisi del contesto politico internazionale. Semplificando, gli attori politici internazionali e il contesto politico internazionale non rispondono a dinamiche che si possano paragonare allo schema logico deterministico di causa-effetto che trova riscontro in scienze quali la fisica, per citare un esempio.

L’idea, dunque, che se ti avvicini minaccioso alla Russia allora la Russia ti attaccherà come per una legge della natura del potere non pare convincente da una prospettiva costruttivista proprio per i suoi assunti riduttivi di causalità. Non convince perché il positivismo scientifico non può rappresentare in modo adeguato la complessità socio-politica internazionale tramite uno schema deterministico. Allora il costruttivismo ha avanzato una nozione alternativa alla causalità e ha suggerito il termine di costituzione; dunque, sollevando il quesito nel nostro caso di cosa abbia costituito in un senso più profondo e complesso il conflitto Russia-Ucraina o Russia-Occidente.

L’attenzione si rivolge a questioni che hanno a che fare meno con carri armati e risorse di idrocarburi e più con linguaggio, identità e norme. Perché un’Ucraina parte della Nato e membro Ue rappresenta un problema (o persino un incubo) per la Russia? Che cosa contribuisce a costituire questa identità-minaccia fra Russia e Ucraina, fra Russia e Nato, Russia e Ue? Si prenda per esempio come possibile risposta l’analisi di Anatol Liven in proposito, che spiega come oltre a questioni economiche e più materiali il nazionalismo russo non si possa esimere dal considerare l’Ucraina una terra essenziale per l’integrità del progetto russo, sia nazionale sia internazionale, che Putin ha perseguito anche in Georgia, Cecenia e in Siria.

E ancora, perché una Russia aggressiva, militarizzata, che sancisce beffarda la fine del liberalismo ha avuto l’effetto di catalizzare le potenze democratiche e liberali (in senso generico) che fino a ieri si distinguevano per sgangheratezza ed erano state proclamate in un declino irreversibile (si pensi a Trump o al nostrano Salvini e, non a caso, ai rapporti privilegiati con Mosca)?

Questi sono i tipi di quesiti che una teoria costruttivista solleva proprio per illustrare le dinamiche di costituzione di un fenomeno piuttosto che basarsi su una riduttiva forma di causalità. Sono i discorsi, le identità, e la creazione di simboli come Maidan, o Zalenski, Putin, Bouazizi, o al-Asad o antagonismi narrativi tra Mosca e New York, Teheran e Berlino, o Damasco e Parigi, noi e loro che costituiscono l’identità “nemico” e dunque formano il campo i campi di battaglia e schierano gli eserciti delle nostre menti.

Questi processi danno un nome al conflitto usando etichette tanto comode quanto approssimative, che sia una guerra al terrore, una guerra della democrazia contro il totalitarismo, una guerra di uomini, donne e Lgbtq libere e liberi contro un folle maschilista, o una lotta di liberazione contro l’autoritarismo. Astraggono entità da contesti storici e sociali di lungo corso rendendole confortevoli scorciatoie mentali verso facili dicotomie di bene e male. Anche di questo materiale linguistico sono fatte le guerre. Ciò non significa che i carri armati non contino o che la guerra non si combatta in un mondo “reale”, un approccio costruttivista non sottovaluta la dimensione materiale. Ma comunque chiede: di cosa è fatta questa guerra? Quali sono i significati costituiscono essa e ai suoi attori, chi e quali processi hanno contribuito alla cristallizzazione di queste identità nelle nostre menti e quelle dei nostri governanti per giustificare, razionalizzare, e dunque far apparire ragionevole o persino necessaria l’azione bellica?

Forse sono anche queste alcune delle domande che bisognerebbe sollevare se si vuole proporre una possibile (a questo punto comunque tragicamente tardiva) soluzione del conflitto. Concentrarsi solamente su un’idea determinista di causalità del conflitto amplifica narrazioni di antagonismi che ci trascinano nella spirale della violenza come se essa fosse l’esito unico e necessario di una causa ineludibile.