IL CENTRO E LA PERIFERIA intervista a Marco Cammelli

Le regioni, tanto care ai padri costituenti, realizzate dopo vent’anni e subito boicottate da un centro geloso delle sue prerogative; la vita breve della stagione d’oro delle riforme Bassanini; l’odierna tendenza a centralizzare, addirittura oltre i confini nazionali; l’importanza, oggi più che mai, di avere sui territori chi sa adattare, adeguare, differenziare, comunicare e dialogare con centri potenti, ma “privi di realtà”.

Facciamo il quadro dei problemi, messi ancor più in evidenza dalla pandemia, rispetto al rapporto fra Stato e regioni, centro e periferia.

Intanto una precisazione: i problemi del day after, qui come altrove, nascono in larga parte da quelli del giorno prima e dunque a questi e non alla pandemia farò riferimento. In ogni caso, per venire alla domanda, è vero che la tensione che si è aperta tra le regioni e il governo è, per la sua virulenza, effettivamente nuova. Non inedita, però, perché c’erano state di recente iniziative strettamente politiche dei governatori (meglio chiamarli presidenti di regione) avanzate nei confronti del centro, del Presidente della Repubblica, perfino della Corte costituzionale, riguardo alla gestione dell’emergenza o alla richiesta di referendum abrogativo della legge elettorale. Non ricordo in tutti i cinquant’anni di regionalismo che abbiamo alle spalle prese di posizione così forti e dirette da parte delle regioni. A mio avviso, però, è importante capire che queste dinamiche non aggiungono nulla alla relativa marginalità delle regioni sul piano politico, perché nascono dal centro e restano al centro, mentre le regioni sono solo sponde. Direi, anzi, che questo protagonismo paradossalmente sottolinea ulteriormente la loro marginalità politica. Perché succede questo? Per il fatto, nuovo, che la netta maggioranza delle regioni è a presidenza leghista, e la Lega sta usando queste sedi istituzionali in termini molto abili, anche disinvolti, direi, nello scontro politico al centro. Questo è un primo dato che dal punto di vista politico non commento, ma che dal punto di vista istituzionale è preoccupante perché innesta su un terreno istituzionale già molto provato e sovraccarico di tensioni, una ulteriore tensione di lotta -del centro e al centro, lo ripeto, non delle regioni- di cui non si sentiva francamente il bisogno.

Ma prima come si riflettevano sulle regioni le tensioni politiche del centro?

Normalmente le regioni venivano, fra virgolette, usate e interpretate politicamente come sostegni alla maggioranza centrale se erano dello stesso colore, o come stazioni intermedie della marcia di avvicinamento alla maggioranza se erano dell’opposizione. Ecco, questo era più o meno lo schema di lettura delle regioni nell’esperienza che abbiamo alle spalle. Anche con alcune sperimentazioni, penso a Milazzo e alla Regione siciliana a suo tempo o a certi anticipi del centrosinistra. Sperimentazioni regionali sempre, del resto, molto attente ad evitare lo scontro istituzionale. Ecco, oggi, riguardo al tema “regioni e politica” registro invece questa novità.

Ma la politica quindi in che modo ha a che fare con le Regioni?

In realtà le regioni sul piano della politica non hanno sfondato. L’idea costituzionale di una politica nazionale che nasceva dalla circolarità di una serie di domande, esperienze, energie, orientamenti che dal centro passavano -attraverso le regioni- alla base e che dalla base -attraverso le regioni- arrivavano al centro, francamente non è mai stata praticata.
Aggiungo un’altra considerazione che riguarda i presidenti di regioni, visto che ci siamo, e che, a mio avviso, conferma quello che sto dicendo: certamente la loro soggettività, la loro visibilità è fortemente aumentata ma senza però raggiungere di norma una significativa caratura politica. È aumentata non solo per le vicende della pandemia, ma per un meccanismo che si è messo in moto vent’anni fa, e che ha fatto dei presidenti delle regioni degli “uomini soli al comando”, il che certo non era negli obbiettivi e non sempre ha funzionato.

La loro riforma fu infatti immaginata in una stagione politica e istituzionale diversa. La legge che prevede la elezione diretta del presidente è del ’99, in vista di un regionalismo “forte” che avrebbe decentrato poteri e responsabilità sulle regioni, il che poi non è avvenuto, per cui è rimasta solo questa parziale riforma, a ennesima dimostrazione che quando riformi un segmento ma il resto rimane invariato, anche il significato di quel pezzo finisce per essere alterato. E nel caso specifico l’alterazione profonda è dovuta a un sistema di elezione diretta fortemente legato a meccanismi maggioritari, diretti o indiretti, dove il candidato presidente, una volta eletto, ha poteri significativi. Quali? Intanto sulla scelta di una (piccola) quota di consiglieri, il famoso “listino”, ma soprattutto il forte potere sul consiglio regionale che gli deriva dal fatto che il consiglio sta in piedi tanto quanto sta in piedi il presidente. Se il presidente si dimette per qualunque motivo o è costretto a lasciare la carica, si va a elezioni, il che significa la fine del mandato per tutti i consiglieri. Di questo, a mio avviso, a soffrirne in particolare è la maggioranza che è totalmente disarmata, perché il presidente è la figura incombente, assorbe tutte le mediazioni, tutte le proposte, tutte le scelte, tutte le decisioni, dialoga direttamente a livello di giunta con gli interessi in gioco e quando le cose arrivano in consiglio sono già state negoziate, valutate, discusse, spesso comunicate all’esterno. Alla fine il consiglio non ha altra alternativa che ratificare e la maggioranza non può far altro che “obbedir tacendo”. Tutto questo fa perdere quella possibilità di rendere più plurale, più partecipato, più legittimato un input che viene dall’esterno. Inoltre il presidente, avendo un potere decisivo nei confronti della giunta di cui sceglie i componenti, ha una forte influenza anche indiretta sull’amministrazione, i cui dirigenti vengono nominati dalla giunta. Il tutto in una istituzione regionale che non è più sottoposta ai controlli di un tempo e, men che meno, a quello dell’opinione pubblica; a differenza di un sindaco, che è seguito più o meno da una cronaca locale per quello che in una città succede, la regione di norma non interessa né alla stampa nazionale né a quella locale. E certo la cosa non è migliorata dalle edizioni regionali della Rai, che anzi di norma peggiorano le cose.

Quindi abbiamo un’istituzione retta dal principio, non della divisione dei poteri, ma da quello opposto della concentrazione dei poteri, tutti in capo al presidente. Ecco perché, pur essendo sfumata l’ipotesi del federalismo da cui nasceva l’idea del “governatore”, così i media lo hanno capito e cominciato a chiamarlo.

Per questo i presidenti sono figure ampiamente fuori asse dal punto di vista istituzionale e in fondo sono anche vittime del loro stesso strapotere, perché così tutte le mediazioni delle varie articolazioni istituzionali si perdono, quello che dice il presidente o va o non va, non ci sono margini, lui stesso non ha spazio sufficiente per adattare e rivedere successivamente quanto prima ha deciso o comunicato.

Inoltre, essere il referente sovraesposto, immediato e diretto, dell’intero sistema regionale ha anche altre meno desiderabili conseguenze: siccome il vuoto in politica non c’è mai, la magistratura, o meglio alcune parti della magistratura inquirente, vanno a riempire quel vuoto.
Abbiamo avuto parecchi presidenti di regione costretti a dimettersi per incriminazioni o che non hanno potuto presentarsi al rinnovo del mandato per incriminazioni poi (dopo anni) risultate infondate. Il che naturalmente è legato a un problema ben più ampio, ma dimostra anche che poi queste asimmetrie hanno un prezzo anche per chi ne beneficia in prima battuta.

E prima? Quali erano i problemi?

Il primo problema è stato proprio di impianto. Già il disegno costituzionale era fortemente oscillante, nel senso che per un verso c’era una visione di respiro, non dico profetica, ma certo di grande tensione innovativa, la famosa piramide rovesciata, la persona, la famiglia, il sindacato, le forze sociali, i corpi intermedi, le istituzioni di base, fino ad arrivare allo Stato e al livello nazionale. Di tutto questo non dico che non ci sia nulla, ma certamente livello nazionale e sistemi locali hanno viaggiato per conto loro per molti decenni: quello che avveniva in sede locale era una cosa, quello che avveniva a livello nazionale un’altra, e le occasioni di incontro erano relativamente scarse. Per un altro verso, già in Costituzione abbiamo anche la parte non dico prosaica ma insomma pragmatica: le regioni come ridotta di protezione di chi perde le elezioni al centro. In una costituente che lavora al buio, perché non sa chi vincerà le elezioni politiche (il 18 aprile 1948 arriva a Costituzione già in vigore) c’era la necessità di costruire aree di protezione, non già di comunità e sistemi sociali regionali che a questa scala spesso non c’erano neppure, ma a protezione delle politiche e delle forze politiche che avessero perduto il confronto. È questo carattere genetico che fa sì che i conflitti tra centro e periferia diventino endemici. Se, infatti, il sistema è collaborativo, diventano centrali le cerniere, ciò che permette di connettere, di fluidificare; se il sistema è invece duale e protettivo, prevale l’esigenza di garanzia, e la separazione è da sempre la forma di garanzia più semplice, più immediata. Quindi il sistema delle relazioni centro-periferia disegnato in Costituzione è essenzialmente garantistico, pensato per proteggere le regioni dalla prepotenza del centro, con un esile collegamento fra i due: lo stato fissa i principi, le regioni legiferano nel rispetto dei principi, con amministrazioni completamente separate e con momenti di controllo limitati a dove le parti si connettono tra loro. Parlo della versione originaria della Costituzione. Ciò, poi, non toglie che anche qui ci fossero alcuni importanti elementi simbolici, come la presenza dei rappresentanti regionali nelle camere unite per l’elezione del Presidente della Repubblica, un elemento simbolico importante, da non sottovalutare, perché è il segno che le due entità si uniscono in una figura che infatti rappresenta l’unità nazionale. Ma in pratica il disegno, così come è concepito, è stato sottoposto a una torsione fortissima, fin da quando si cominciò a pensare di attuare le regioni, perché in realtà la politica non le voleva, o meglio, le voleva o no a seconda di chi pensava di vincere.
Ci furono degli interessanti scambi di posizione, in Costituente, sul punto. Furono le elezioni siciliane con la netta affermazione della Democrazia cristiana a portare le sinistre a una posizione più pro-regionalista, ma dal punto di vista culturale e politico la sinistra restava contraria, convinta che le riforme si fanno dal centro e che l’autonomia regionale e locale può produrre solo vandee resistenti all’innovazione e al progresso. A favore dell’autonomia c’erano storicamente l’area cattolica e alcune schegge dell’area laica come il Partito d’Azione, più sensibili, ma il resto restava assolutamente estraneo. Quindi la politica, dopo l’aprile del 1948, rinvia tutto, con il consenso di tutti. Le regioni che dovevano essere istituite entro un anno dalla Costituzione, quindi nel ’48, entrano in funzione solo nel ’70 senza che nessuno avesse mai seriamente protestato. Il 1970 non è una data qualsiasi: si versa in un momento di crisi politica nazionale e le regioni diventano, dall’inizio appunto, uno spazio politico aggiuntivo per il centro, per risolvere problemi del centro. Nel ’68-69-70 abbiamo l’esaurirsi della formula del centro-sinistra e l’avvicinamento del Pci all’area della maggioranza, se non del governo: le regioni vengono utilizzate per legittimare e agevolare questo processo. Ma nello stesso tempo in cui si attua il decentramento istituzionale, il governo, uno dei vari governi Andreotti prende le contromisure e vara una riforma fiscale che sposta al centro larga parte del prelievo fino a quel momento assicurato dai tributi locali. Se si portano le risorse della finanza locale al centro, il senso è chiaro…

Due: le regioni vengono concretamente definite con l’approvazione degli statuti di autonomia e la stesura dei decreti delegati di trasferimento delle funzioni. Ebbene alla prima si pone mano con modalità che tutti i primi presidenti delle regioni (tra l’altro spesso prestigiosi: da Fanti a Bassetti) ricordano come umilianti.

Gli statuti regionali che formalmente hanno una posizione superiore alla legge ordinaria e le cui proposte certo il parlamento avrebbe potuto discutere e anche respingere ma non modificare con un passaggio istituzionale importante, in una notte famosa della Commissione affari costituzionali presieduta dall’onorevole Tesauro, uomo di grande esperienza parlamentare, vengono largamente riviste con modifiche letteralmente dettate dallo stesso presidente. In breve: le regioni passano all’esame del maestro che le bacchetta sulle cose da togliere e le cose da mettere negli statuti. Questo fu il primo atto di vita istituzionale delle regioni.

Le funzioni vengono poi definite in una delle forme più arretrate dal punto di vista dell’innovazione istituzionale, rispetto, per esempio, alla competenza agricoltura: invece di chiedersi cosa fosse l’agricoltura nell’Italia del 1970, in piena urbanizzazione e industrializzazione o cosa fosse per la pianura padana e il meridione; invece di discutere quindi del quadro aggiornato rispetto al 1948 e di quale dovesse essere il compito dello stato e quello delle regioni, cosa si decide? Che la materia dell’agricoltura, da cui dipenderà l’estensione di tutti i poteri della regione, quindi il perimetro base del relativo ruolo, è un pezzo di quello che tradizionalmente fa il ministero dell’agricoltura. Punto e basta. La dimensione e la definizione dei poteri regionali viene tratta da una costola dell’organizzazione ministeriale, a sua volta già vecchia di almeno 80 anni. Tanto per dare un’idea di quale sia stato l’approccio. Il tutto ovviamente nel trionfo della burocrazia centrale, ottenuto per la benevolenza della politica che con una mano dà per la parte che le interessa e con l’altra frena per mantenere le cose come stanno.

Poi però c’è un momento in cui invece ci si sforza di prendere sul serio il regionalismo…

Sì e questo è frutto di due cose: da un lato, dei primi vagiti della Lega, che comincia a premere sul discorso del decentramento, fondamentalmente a proposito del rapporto tra le tasse che si pagano e i servizi che si ricevono, quindi un discorso che parte dai quattrini ma implica anche altro. Contemporaneamente, siamo all’inizio degli anni Novanta, ormai c’è Maastricht, e la possibilità che nell’aprirsi di un mercato unico e con istituzioni comunitarie forti, i protagonisti del nuovo assetto siano Bruxelles da un lato e i sistemi regionali dall’altro, che nel corso del tempo si sono già affermati sul piano socio-economico, tipo la Baviera per intenderci. È questo che porta alle riforme amministrative di Bassanini degli anni Novanta, e prima ancora a quelle degli enti locali con l’elezione diretta del sindaco fra il ’90 e il ’93. Arriva anche “Mani Pulite”, i cui effetti sul piano istituzionale non sopravvaluterei perché le variabili fondamentali sono le dinamiche che portano alle riforme Bassanini, alle modifiche dell’elezione diretta del presidente delle regioni, alla riforma del titolo V nel 2001, la cui coda finale si avrà nel 2009 quando si vara il cosiddetto federalismo fiscale con tutta una serie di decreti attuativi già pronti (e bloccati all’ultimo), basati sul principio che da un lato i servizi essenziali alla popolazione, legati ai diritti fondamentali, non dovevano andare sotto certi standard, i famosi Lep, “livelli essenziali delle prestazioni” e dall’altro che queste funzioni avessero dei costi standard, per evitare sperequazioni nel paese. Tutto questo è stato fermato. Noi tutt’ora abbiamo un pezzo della Costituzione, il Titolo V, che per tutti è diventato una specie di capro espiatorio di tutte le sventure nazionali, mentre non era che l’evoluzione, negli anni Novanta, di ciò che è scritto e legittimato dalla Costituzione.

È un’evoluzione rimasta a metà con D’Alema, subentrato a Prodi, e poi del tutto bloccata nel 2001 con Berlusconi. Così con la crisi finanziaria del 2008 e tutto quello che avviene dopo, mentre Bossi continua a parlare a Pontida di secessione o a celebrare riti di ampolle con l’acqua del Po, avviene una delle centralizzazioni più dure e feroci che siano mai state fatte. Per arrivare senza interruzioni fino alla odierna pandemia.
Luciano Vandelli, uno degli studiosi più attenti della materia che purtroppo ci ha lasciato di recente, allora assessore regionale, amava dire: “Non sono mai andato tante volte a Roma come da quando si parla di federalismo”. Ecco, è la rappresentazione perfetta della schizofrenia tra narrazioni celtiche e centralizzazione romana. Così il titolo V è rimasto a metà, un po’ perso nelle nebbie. Dopodiché è certo che se faccio un ponte per una direzione e poi vado dall’altra, quel ponte rimane un monumento all’inutilità, ma la causa del fallimento sta nella caduta del disegno su cui era fondato. È dunque del disegno caduto e non della sua traduzione istituzionale di allora che oggi si dovrebbe discutere e soprattutto di altri possibili disegni, che ancora non mi sembra di vedere.

In questo senso, e concludo su questo punto, dagli anni 2005-2006 in poi, quando si intrecciano problema del debito pubblico, patto di stabilità e crisi politica, questa centralizzazione molto forte si associa a un centro debole, e questo è un problema per tutto il sistema, perché comporta paralisi o mediazioni sottobanco non trasparenti, sempre episodiche, mai strategiche. Ma perché non c’è la forza. Ecco, questa centralizzazione su un centro debole (che non a caso si inventa periodicamente “il personaggio” cui appoggiare tutto il resto) continua ai giorni nostri e, attenzione, l’applicazione del piano europeo di sostegno (Pnrr) darà una curvatura ancora più centralizzata al nostro sistema almeno per un decennio.

Quindi la centralizzazione va considerata irreversibile?

Certamente lo spazio per la potestà legislativa regionale si ridurrà ulteriormente. Il vecchio mito autonomia legislativa uguale autonomia politica, che suonava molto bene, “fare le leggi” inteso un po’ come “padroni in casa propria”, è andato. Le leggi regionali sono complessivamente poche e limitate. Ma non è tanto (e solo) un problema della qualità della classe politica che le sta amministrando, certo non paragonabile a quella degli anni Settanta, ma del fatto che di spazio a disposizione ne è rimasto poco.

La regolazione ormai è migrata altrove. Al centro nazionale e al centro comunitario. È lì che si fanno le regole. Dalle altre parti si applicano e al massimo si adattano.

Allora cosa rimane dell’autonomia?

A me pare che l’autonomia delle regioni si giochi ormai su un piano diverso, che non è la legislazione ma, intese in senso ampio, l’attuazione, la messa in opera, il collegamento fra centro e sistemi locali, l’intermediazione più fluida ed efficace possibile delle politiche pubbliche, con la possibilità di articolarle. In questo senso anche la potestà legislativa può tornare utile, per adattare, adeguare, rendere flessibile ciò che altrimenti sarebbe rigido.

È un regionalismo cooperativo, che collabora all’applicazione di politiche europee e nazionali agevolando il sistema locale a trovare la propria cifra nella loro applicazione. Questa dovrebbe essere la vocazione delle regioni. Il che significa innanzitutto un collegamento forte con le città, che sono i veri centri, i punti di forza. Ma per fare questo bisogna spostare il baricentro della regione sulla concretezza dell’amministrazione, dell’organizzazione, della programmazione, della interdipendenza delle politiche pubbliche, della garanzia dei beni non divisibili, del reperimento e gestione delle risorse, del partenariato tra pubblico e le tante forme del privato (dalle imprese al terzo settore, dalle fondazioni al volontariato) e tutto questo a cominciare dalla disponibilità dei dati, tanto più importante dopo la sciagurata scelta dell’abolizione delle province. Adesso sopra i Comuni non c’è nulla, c’è un enorme spazio vuoto, che è quello che le regioni devono occupare, perché quello è lo spazio fondamentale di intervento, dello stesso Recovery plan. Avremo infatti un decennio almeno di applicazione specifica, precisa, puntuale, di questo e quello, e in che modo, in che tempi e con chi. Insomma, un intero paese che si mette a cambiare. Allora, siccome è importante non fallire, pena una crisi nazionale e europea non augurabile a nessuno, a me pare che questo sia il fronte della nuova autonomia, un’autonomia che è differenziazione, è ricognizione, è capacità di cucire fra loro i soggetti e i settori diversi in modo da curarne l’interdipendenza; sono i piani paesaggistici, sono le infrastrutture, insomma l’interfaccia delle agenzie che possono operare sul territorio a cominciare da quelle della mobilità, delle reti, dell’energia, ecc. Purtroppo le regioni sono spesso sguarnite proprio su questi punti perché si sono definite più come gestione diretta e sguardo al centro e allo stato che come punto d’incontro dei sistemi locali, con il risultato che proprio su questo lato resta aperto un vuoto che la soppressione delle province ha aggravato.

Ma tutto questo va bene se anche il centro funziona; non è scontato…

La domanda è opportuna, se no il discorso rimarrebbe sbilanciato. In principio c’è, come il verbo, un centro immutabile. Il nostro è un centro che non ha cambiato praticamente una virgola da quello di cent’anni fa e le ultime riforme vere sono quelle di Giolitti; il fascismo per funzionare ha dovuto inventarsi un sistema di amministrazioni parallele ai ministeri. Il centro ministeriale ha riproposto incessantemente le sue regole, le sue procedure, i suoi funzionari, i suoi modelli procedurali e contabili, imponendone anzi l’estensione in sede regionale e locale. Questo è quello che è avvenuto. Le riforme Bassanini toccavano il centro, lo aggredivano, modificavano i ministeri, ma dal 2000-2001 in poi è stato girato il veicolo e si è fatta marcia indietro. Basta un dato: il periodo di massimo trasferimento di funzioni dallo Stato alle regioni è fra il ’96 e il 2000, cioè il tempo delle riforme Bassanini. Bene, fra il ’98 e il 2001-2002, il personale statale centrale invece di diminuire è aumentato!

Allora certamente le modifiche al centro sono indispensabili, anche perché l’autonomia è un dato relazionale, è una relazione tra due soggetti: se cambio io, devi cambiare anche tu. Torniamo a oggi e al Pnrr. Ovviamente, nei primi tempi, la tentazione maggiore sarà quella di scorporare singoli pezzi e di costruire corsie parallele, fluide, veloci, in modo da permettere il rispetto dei tempi richiesti dalle regole europee. In parte questo è inevitabile, ma se sarà così del tutto, dopo qualche anno ci ritroveremo il centro inalterato e le periferie (amministrazione statale periferica compresa) finite chissà dove. Ora, il mutamento starebbe tutto in questa espressione: il modello ministeriale italiano è superato perché strettamente legato alla gestione diretta, perché ha soltanto una marcia, quello che fa direttamente. Il resto in fondo non è un affar suo: se ne occupa un altro, è un altro che ne risponde e non se ne vuole sapere altro che vada oltre l’aspetto formale (l’involucro esterno) dell’insieme. I tagli lineari della spesa sono stati fatti perché nella pubblica amministrazione, salvo limitati settori (il Ssn è uno di questi), non si sa niente di più delle grandi linee. In conclusione, il centro è il punto chiave: invece di essere il vertice della amministrazione statale, i ministeri (o chi per loro) dovrebbero essere il centro del sistema paese, ma questo significa un mestiere nuovo e innanzitutto passare dal “fare” al “far fare” ad altri: istituzioni decentrate, privati, altro ancora. Questo era l’obbiettivo delle riforme degli anni Novanta: al centro le scelte strategiche e gli elementi indivisibili del sistema, spostando l’amministrazione verso la periferia, perché l’operare è l’operare concreto, è l’applicare le singole iniziative adeguandole alle condizioni del contesto; è l’interdipendenza tra le politiche pubbliche e tutto questo richiede la prossimità delle articolazioni decentrate o l’operato di agenzie tecniche di settore, non il vuoto pneumatico del centro amministrativo. Questo per vent’anni non è stato fatto e oggi ci costa moltissimo.
Ma in questo scenario alle regioni resta solo un ruolo attuativo, sia pure in senso ampio?

No, perché il peso decisionale che (relativamente) perdono in periferia lo recuperano partecipando alle decisioni centrali, come sta avvenendo proprio in questi giorni (fine maggio, Dl 77/2021) nel disegno della governance del Pnrr con l’innesto dei presidenti delle regioni nella cabina di regia. Certamente il centro è la chiave di volta del sistema, ma proprio per questo è importante che regioni e sistemi locali siano presenti in queste sedi e diano in modo efficace il loro apporto in termini di domanda politica, di conoscenza dei problemi, di consenso e in definitiva di legittimazione delle scelte che vengono operate.
Per questo è importante, ma non basta, la partecipazione al Senato, che pure conterebbe, e neppure la conferenza Stato-Regioni, che oggi in non pochi casi non è che il paravento di negoziazioni faccia a faccia, bilaterali, tra singole regioni e singoli ministeri, come testimonia il libro di Linda Lanzillotta (Il paese delle mezze riforme, 2019), che è stata ministra degli Affari regionali qualche anno fa, dandone una vivida rappresentazione dall’interno. Intendiamoci, meglio che niente, però credo che l’importante sia capire che, se il centro è un centro per tutti, sia un centro di sistema, perché è interesse di tutti sapere cosa succede. E allora certe riforme amministrative, che si fanno sui ministeri, non sono una cosa che riguarda solo lo Stato, ma l’insieme delle istituzioni di questo paese. E quindi le regioni e gli enti locali devono interloquire su questo.

Ritengo che dovrebbero seguire anche le programmazioni anno per anno di quello che ogni singolo ministero operante in materia regionale si propone di fare. Se, ad esempio, il ministero dei beni culturali vara la programmazione annuale di quello che fanno le soprintendenze, le regioni in cui queste hanno sede hanno tutto l’interesse a sapere, a discuterne. Servirebbe a entrambi. Altrimenti rischiamo di avere un centro senza antenne e una periferia che è immersa nella realtà, ma non ha poteri se non sottobanco, e in queste condizioni perdono tutte e due.

Hai accennato alla differenziazione. C’è una polemica sull’autonomia differenziata, qualcuno dice che sono i ricchi che vogliono tenersi i soldi…

La mia opinione, l’ho detto più volte, è che l’autonomia è differenziazione, che differenziare è indispensabile per risolvere il vero problema: la rigidità e l’uniformità. In assenza di un vero governo di sistema, ingessare tutto è l’unica cosa che una burocrazia centrale, aiutata in questo da una produzione normativa ipertrofica, riesce a fare. I sistemi locali non hanno neppure la possibilità di fare differenziazioni minime come un paese lungo come l’Italia richiederebbe. Una parte significativa dell’alegalità e dell’illegalità vera e propria nasce anche da questo, dalla necessità di liberarsi di prescrizioni assurde perché obsolete (e questa è la semplificazione) o inadeguate perché costruite su una media per definizione lontana, in un paese come il nostro, dai singoli picchi positivi o negativi. Allora differenziare è decisivo. L’uniformità riguarda i cittadini, i cui diritti fondamentali debbono essere identici ovunque essi siano, dal Trentino fino a Trapani, ma questo non significa che l’azione del servizio sanitario debba essere uguale dal Trentino a Trapani. I risultati devono essere quelli, ma i modi per arrivarci possono essere tanti, perché dipendono da condizioni geomorfologiche, sociali, economiche, dalla capacità amministrativa, da mille cose. Del resto la differenziazione è sancita in via generale dall’art. 118 Cost., secondo cui l’amministrazione deve ispirarsi al principio della differenziazione, della proporzionalità, dell’adeguatezza, che significa aderire al contesto in cui sei.

Questo è possibile soltanto facendo arretrare la legge dall’eccesso di prescrizioni che pone e dunque responsabilizzando i funzionari, riconoscendo il loro potere discrezionale e ovviamente la loro responsabilità su questo.

Questo è un passaggio chiave. Se invece, da un lato, si intende metter loro i ceppi e, dall’altro, il personale vuole proteggersi da possibili responsabilità, perché queste sono le cause principali della nostra ipertrofia normativa, avremo un sovraccarico di rigidezza e di uniformità con regole inadeguate o obsolete già la sera stessa in cui diventano legge. Con le conseguenze sul merito e sull’efficacia dell’operare che si conoscono.

Allora, di fronte a questa esigenza, il fatto di permettere alle regioni adattamenti su certe materie anche per la potestà legislativa come previsto dalla Costituzione (art.116.3), è sacrosanto. Il problema è che questa clausola è stata utilizzata in modo improvvido, innescando una reazione che ha reso le cose ancora più difficili. Se di fronte a una situazione di difficoltà di un intero paese, di crescente divaricazione tra Nord e Mezzogiorno, di blocco degli strumenti perequativi (Lep e altro di cui si è detto), le tre regioni più importanti del paese, Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, sia pure con progetti a estensione diversa, utilizzano congiuntamente la clausola del regionalismo differenziato, il messaggio che se ne trae e che non avrebbe dovuto essere ignorato (sempre che lo sia stato!) neppure dal più ingenuo dei politici regionali, si traduce in qualcosa di totalmente diverso: “Abbiamo provato in tutti i modi a cambiare il centro, e il centro non cambia; abbiamo cercato in tutti i modi di avere possibilità di articolare normative e questo non è possibile; abbiamo la Costituzione che ci chiede un’amministrazione adeguata e proporzionata, ma l’uniformità ce lo impedisce, e allora noi ce ne andiamo per conto nostro”. In questo modo l’operazione, che come si vede in astratto non mancava di ragioni, diventa veramente benzina sul fuoco. Il tutto aggravato dal fatto, tutt’altro che trascurabile, che parliamo delle tre regioni più ricche e che sotto sotto (in qualche caso, sopra-sopra) ci sono gli “sghei”. Se la Lega e l’Emilia-Romagna si mettono insieme la frittata è fatta: è il Nord che si muove e lo fa in una situazione in cui le tensioni territoriali sono già molto forti. Sarebbe meglio non scherzarci su. Ecco perché penso sia stato, e sia ancora, se il discorso sarà ripreso negli stessi termini, un grave errore.

In questa situazione critica e con un centro debole come si è detto, oltre tutto ricorrendo ad uno strumento inidoneo, come la procedura prevista dall’art.116.3 Cost. che è una procedura limitata, prevista per questioni specifiche. Ad esempio: nel caso di Venezia, per gestire un sistema metropolitano lagunare, ho bisogno di avere anche poteri relativi a questi aspetti, alle capitanerie di porto, etc.

In questi casi, si propone un pacchetto di poteri legato a questo problema che decentra anche competenze normative addizionali. Ma come si vede bene, sono cose specifiche, interventi sartoriali, di adattamento della veste al dato concreto. Se invece sforzo la disposizione costituzionale chiedendo il trasferimento aggiuntivo di tutto ciò che potenzialmente potrei avere, da un lato mi sto confezionando una regione su misura che immediatamente pone il problema delle restanti e dall’altro eludo la motivazione delle richieste, che è la base per la messa a punto di ogni risposta congruente.

Quindi? Cosa si può fare?

Se sono problemi di sistema, intanto sono chiare le cose da non fare, la prima delle quali è limitarsi alle soluzioni di emergenza, basate su deroghe normative e corsie/strutture parallele sul piano funzionale e organizzativo. È presto per pronunciarsi su quello che succederà nell’applicazione dei decreti sul Pnrr e anzi ho richiamato qualche elemento incoraggiante come la partecipazione delle regioni al centro. Il resto è ancora indistinto e non mancano soluzioni che nell’immediato sono probabilmente inevitabili, ma che se rimangono senza integrazioni o correzioni si rischia di imboccare la strada delle cose da non fare. Vedremo il testo finale in sede di conversione e le altre iniziative assunte dal governo in corso d’opera.

La seconda è riportare il discorso al piano strategico, delle grandi scelte e il primo passo è porsi le domande di fondo, vale a dire: qual è il ruolo dei sistemi locali oggi, con quanti “centri” (oltre a quello nazionale) questi devono fare i conti e in che modo, quali gli ambiti nei servizi nazionali (come sanità, scuola, ecc.) che incidono sui diritti fondamentali e da considerare “indeformabili” e quali invece quelli che richiedono una “necessaria” diversità per adeguarsi a condizioni diverse e, infine,  quanto regioni e sistemi locali vadano responsabilizzati sul prelievo oltre che sulla spesa di risorse pubbliche e che cosa debba restare affidato a un’altrettanto doverosa azione perequativa nei confronti delle aree più deboli, non tutte e solo nel Mezzogiorno.

Porsi queste domande, aprire questo dibattito pubblico, esigere che i partiti o quello che ne resta e i soggetti della società civile si pronuncino su questo non significa poi redigere il consueto e inutile libro dei sogni. Significa imboccare la strada per maturare orientamenti di massima, certo da specificare e da tradurre in concreto, che intanto permettano di escludere scelte che vanno in senso opposto e aiutino a sperimentare in concreto, come questi anni di attuazione del Pnrr comunque imporranno, innovazioni e soluzioni possibili. Cominciando da un punto di fondo, che dovrebbe reggere l’intero schema di riferimento.

La regione ha un peso limitato nel gioco politico nazionale mentre va considerata uno snodo cruciale delle politiche pubbliche da e per il centro, da e per i sistemi locali. È questo ruolo istituzionale che è di gran lunga preminente e quindi è necessario passare dall’originaria separazione del dualismo garantistico, a difesa di forti e potenziali diversità politiche che non ci sono e che avranno ancor meno spazio nei prossimi anni, a moduli strutturali e funzionali di natura cooperativa essenziali per l’intero sistema, cominciando dal centro. Il che significa che chi pensa al consolidamento della ipercentralizzazione, con un sistema tolemaico a difesa di macro riforme e rigide uniformità garantistiche o chi in senso opposto si propone la disarticolazione in sottosistemi reciprocamente impermeabili a difesa di piccole patrie o di più prosaiche risorse finanziarie proprie, è del tutto fuori strada. E fuori strada sono le misure grandi o picco le che vi si ispirano.

Non è chiaro ancora dove andremo a finire, ma almeno sappiamo cosa vogliamo evitare. Poi vi sono numerosi aspetti specifici cui è bene porre mano. Mi limito a due esempi. Il primo è sapere e far sapere come stanno le cose, dirlo con franchezza e smettere di nascondere tutto sotto il tappeto. È un lavoro che può contare su molti elementi già disponibili ma è essenziale per governare i processi. Ed è importante farlo prima di immettere decine di migliaia di giovani nell’amministrazione perché altrimenti nel giro di pochi anni questi giovani saranno demotivati e perduti: avranno più abilità informatiche, ma fondamentalmente avranno assorbito la mentalità difensiva.

Il secondo è una azione di supporto concreto e di restituzione di valori di prestigio a tutto il personale delle amministrazioni pubbliche: compreso quello elettivo, perché non è un caso che non si riescano a trovare più neanche amministratori pubblici e candidati sindaci. Da tempo, e in misura crescente, i funzionari sono sottoposti a un pesante sovraccarico di responsabilità formali penali, civili, amministrative e contabili. La burocrazia difensiva nasce da questo ed è un tema diffuso e terribilmente ostacolante per qualunque tipo di azione. Vanno innanzitutto sollevati dal sovraccarico normativo, dove nel tempo si è accumulato di tutto, dai nuovi diritti ai nuovi doveri e i pochi margini rimasti sono stati ulteriormente ridotti dall’anticorruzione. Bisogna uscirne facendo marcia indietro da questo sovraccarico regolativo (gli strumenti ci sono), lasciando ai funzionari poteri e certo anche le conseguenti responsabilità, che vanno loro riconosciute. Bisogna alleggerire i rischi che corrono, sostenendoli anche sul piano professionale ed economico come si deve e non penso solo ai dirigenti, ma anche ai quadri intermedi. Ci sono poi aspetti simbolici come i premi, l’apprezzamento dei risultati raggiunti, una cura di aspetti considerati ingiustamente minori che spesso è mancata ma che invece è molto importante. Per questo i segnali che i recenti provvedimenti governativi (fine maggio, inizio giugno) danno in materia di giustizia penale e responsabilità contabile, semplificazione, valutazione e incentivi al personale sembrano incoraggianti.

Non conosciamo ancora come alla fine si sistemeranno i rapporti tra centro e sistemi locali, entrambi da ripensare, ma è certo che riportare il dibattito sulla intelaiatura di base di questo aspetto istituzionale e procedere al recupero dei valori e degli strumenti professionali del personale delle pubbliche amministrazioni sarà in ogni caso determinante. Perché è anche da qui che si deve partire.