Fedi e politiche (al plurale)

Ho fatto in tempo a vivere il fervore delle discussioni su “fede e politica” negli anni ’70 e ‘80. Conservo ancora un po’ di testi su questo tema, con questo esatto titolo (che non ho mai più sentito il bisogno di prendere in mano, e non lo farò ora). E non riesco a sfuggire alla sensazione che si tratti di un dibattito – come molti di quei tempi – irrimediabilmente datato. Non vecchio di quarant’anni, ma proprio di un altro evo (del resto, di un altro secolo si tratta). Lontanissimo…

Datato nella terminologia, nella solidità quasi “rocciosa” che attribuisce presuntivamente alle categorie in questione. E anche per l’essere un tema quasi esclusivamente declinato al maschile. Che è il genere tuttora dominante nel mondo cattolico (inteso come gerarchia e funzionariato), nella teologia che pensa la politica, e anche nella politica (poca e poco profonda) che pensa la religione. Lo è statisticamente, percentualmente. Ma ho anche la sensazione che lo sia nella predilezione per temi totalmente astratti e quasi sempre disincarnati – cartesiani, mi viene da dire (“fede e politica” è tipicamente uno di questi temi). Ma Cartesio era quello che diceva cogito ergo sum quando sappiamo che nella vita è esattamente il contrario, per dire. Un filosofo, anche lui, tutto al maschile, oltre che maschio.

Dico questo per spiegare perché, quando sono stato invitato a riflettere su questo tema, ho subito accettato, ma anche contemporaneamente pensato che non avrei avuto molto da dire. O che, almeno, la pars destruens avrebbe preso decisamente il sopravvento sulla pars construens.

 

Cominciamo dai termini. Usare il singolare significa usare il retrovisore. Non posso riassumere qui lunghi processi in poche frasi (ho scritto parecchio di queste cose, visto che l’essere un sociologo delle religioni è uno dei miei mestieri). Ma possiamo e dobbiamo almeno dire che secolarizzazione, privatizzazione del religioso e pluralizzazione dell’offerta non sono passati invano. Né per la fede né per la politica, che è bene a questo punto cominciare a declinare entrambe al plurale.

 

Le fedi: perché il pluralismo interno al mondo cristiano, e ancora di più quello esterno, insieme alla soggettivizzazione del rapporto con il religioso, hanno di fatto reso sempre più frequenti nella nostra vita pratiche che non si riducono alla scelta tra essere credenti oppure no. Si può credere senza appartenere (e persino il contrario…), ci si può costruire di fatto, senza nemmeno accorgersene, la propria religione sulla base di elementi disparati raccolti lungo la strada (supermarket delle religioni, fai da te: un po’ di reminiscenze cattoliche, l’oroscopo, lo yoga, i cristalli, la guarigione attraverso l’imposizione delle mani, la cristalloterapia, la meditazione zen, il guru orientale e il santo cristiano…), si possono adottare processi di inclusione o di contaminazione (sono cattolico ma credo anche nella reincarnazione, o qualcos’altro), e ci si può convertire (e de-convertire) anche più volte (tanto per far capire che non è così strano, un venerato maestro della chiesa come sant’Agostino si è convertito al manichesimo e poi al neoplatonismo prima di approdare al cristianesimo) – e tutto questo lo si può fare in maniera intermittente e reversibile, e di fatto caratterizza la vita di molti noi, e sempre più dei nostri figli.

 

Le politiche: perché si comportano allo stesso modo, se sono “fedi laiche”, e finiscono per essere ancor più soggette alla logica della frammentazione se non lo sono (e di solito non lo sono più). Il rapporto del cittadino con le forze politiche è più debole, comunque meno fideistico (c’è meno credenza, e ancor meno appartenenza), spesso è mediato dal leader e passa attraverso di lui (e come ci si innamora, magari intensamente, con la stessa frequenza ci si disamora), c’è una notevole volubilità di opinioni, da parte delle stesse leadership, senza che questo incrini minimamente l’appartenenza, per i militanti, ma anche sempre meno militanza (una quota sempre più ampia di votanti oltre tutto decide in cabina elettorale). Dunque, anche in politica tutto vive uno statuto provvisorio e reversibile: a cominciare dalle stesse forze politiche, che hanno una durata sempre più breve, con ovvie conseguenze sulla fidelizzazione del voto (io per esempio nella mia vita sono stato iscritto a tre partiti, per lo più tuttavia non sono stato iscritto a nessuno, e ho simpatizzato e votato per almeno un paio d’altri – la stragrande maggioranza delle persone, di “fede” o meno, non si iscriverà mai a nessuno).

 

Non che non ci sia motivo di collegarle, allora, fede e politica: c’è sempre. Ma bisogna prendere atto che vanno declinate al plurale, e il cambiamento di opinioni è la nuova normalità, come lo è la mancanza di appartenenze stabili e dunque di comunità significative di riferimento. E non sono affatto convinto che sia necessariamente un male, un regresso, un passo indietro. Non solo, fedi e politiche pesano meno nella vita delle persone: tranne in quelle che hanno scelto professionalmente l’uno o l’altra, o tutt’e due. Perché ciascuno ha altre identità e appartenenze di riferimento significative (il sociale, la famiglia, la professione, il volontariato, i gruppi di simili perché interessati alle stesse cose, che siano hobbies, sport, ecologia o quant’altro). E quelli per cui sono determinanti le due di cui stiamo parlando sono una minoranza, di fatto un ceto di specialisti: con il rischio che il gergo con cui ci si esprime sia poco appetibile per il resto del volgo. Di fatto, è spesso più interessante coniugare le fedi con altre cose (prendiamo ad esempio la preoccupazione per l’ambiente) o le politiche con altre cose, che non fede e politica tra loro.

Di più, l’esperienza che tutti oramai facciamo, fin dai banchi di scuola o dai luoghi di lavoro, della pluralità (esperienze che fanno meno proprio le identità religiose e politiche, che tendono ad essere escludenti e a chiedere una militanza totalizzante, anche se pochi poi la praticano effettivamente), ci ha resi meno inclini a credere che i “nostri” siano necessariamente migliori degli altri, e che il semplice fatto di essere dei “nostri” non è per nulla una garanzia di comportamento migliore. Troppe controtestimonianze non ci consentono più una fiducia cieca, e neanche miope: occorre mettersi gli occhiali, se del caso, e non fidarsi di nessuno a scatola chiusa.

 

Faccio due esempi. Uno sul lato della politica: la Banca d’Italia – che è stata ed è per fortuna ancora un’istanza etica e una fondamentale riserva valoriale della repubblica (probabilmente la principale del nostro paese), dalla quale abbiamo attinto diversi tra i migliori nostri politici (ed è indicativo: gente cresciuta a fare conti, non a disquisire di valori). Direi che i momenti migliori li ha vissuti in mano a laici laicissimi, o a cattolici assai discreti: quando è finita in mano a pii teoreti, che amavano farsi vedere in compagnia di porporati, ha dato il peggio di sé e ha avuto uno sbandamento che ha rischiato di minarne radicalmente la credibilità. L’altro, sul lato della fede: penso ai “cappellani del parlamento” – bravissimi nelle pubbliche relazioni e nell’organizzare incontri e pellegrinaggi in cui soprattutto i laici potevano ostentare la loro vicinanza, salvo la totale incapacità di aver fatto crescere una leadership cattolica presentabile, per non parlare di qualcosa che potesse assomigliare a una politica cristiana, qualunque, ma proprio qualunque cosa possa voler dire quest’espressione.

 

Quanto precede probabilmente spiega perché vivo una lontananza radicale da questo dibattito, e riesco a suggerire solo una soluzione individuale. Sia cattolico (o altro) chi lo è o si sente di esserlo, faccia politica chi vuole o pensa di poter dare un contributo, la faccia con chi c’è cercando di incrociarle come meglio riesce la sua attività con il fondamento delle sue radici valoriali. E addio nominalismi, addio retorica, basta ambigui pseudoriconoscimenti sulla base di un’appartenenza che, anche per i praticanti (e molti di noi lo sono a periodi alterni, peraltro – e trovo non ci sia nulla di male in ciò), non è più solida come in passato. E i luoghi di incontro, a prevalenza laica o cattolica (preziosissimi: tra questi anche quello che ci ospita) siano un contributo alla costruzione di un supplemento d’anima: meglio per temi che per princìpi. Esercitandosi empiricamente a fornire soluzioni. Che, si scoprirà, sono fondate anche su valori. Ma il confronto avvenga lì, non sui valori in sé.

 

Nel concreto. Ogni tentativo di creare una forza politica centrista, qualunque cosa significhi, per iniziativa di una rete di cattolici trasversali alle appartenenze partitiche, è in quanto tale destinato a fallire. Qualunque progetto potrà nascere solo in presenza di una qualche leadership carismatica – che in questo momento nel mondo cattolico impegnato in politica non si vede, domani può darsi, ma non è detto – e del sostegno di una base di interessi che per definizione non potrà coagularsi intorno a un’appartenenza fortemente modificata nelle sue architetture organizzative e men che meno intorno a una fede inevitabilmente evanescente. Tradotto: dubito che in futuro si potranno eleggere persone in un ipotetico partito “valoriale” o nei vari partiti esistenti solo perché vicine al vescovo o a una qualche associazione. Dati molti precedenti in cui ho avuto occasione di incocciare, meglio così. Basta con l’essere cattolico come rendita, anzi sinecura, magari per fare meno fatica nel trovare consensi per la propria piattaforma politica. Non abbiamo nessuna garanzia che gli altri siano meglio, certo, ma almeno non avremo alcuna complicità nell’aver scelto il peggio.

Credo sia utile impegnarsi in politica (io lo faccio) – ognuno rispondendo al proprio foro interiore, non certo alla curia (o alla parrocchia, a livello locale), né al movimento di turno – dove ci si trova a proprio agio (e cambiando ‘parrocchia’ – l’espressione è significativa – se non ci si sente più a proprio agio: ho fatto anche questo). Nessuna predilezione particolare per nessuna forza politica, quindi nessuna cogente indicazione di voto (che tanto non sarebbe rispettata), direi quasi nessuna esclusione, salvo alcune nette barriere valoriali (per dire, pur collocandomi personalmente in un campo che potremmo definire liberal-progressista, non vedrei affatto male la presenza di persone valorialmente solide nello schieramento di centro-destra: con cui collaborare non in quanto cattoliche, ma in quanto ragionevoli e che hanno maturato capacità dialogiche). E per il resto, buon lavoro, buona fortuna, con i compagni di viaggio che ciascuno troverà sul proprio cammino.