La guerra Israele Iran. Spunti dalla stampa estera

Se verrà la guerra, Marcondiro’ndero
Se verrà la guerra, Marcondiro’ndà
Sul mare e sulla terra, Marcondiro’ndera
Sul mare e sulla terra chi ci salverà?
[Fabrizio De André]

L’attacco di Israele all’Iran è l’ultimo caso di una lunga serie in cui, nel declinare del vecchio “ordine mondiale”, tutti gli attori che contano sembrano drammaticamente orientati a pensare che il ricorso alla forza militare sia l’unico strumento disponibile per risolvere contese internazionali ormai incancrenite. E si muovono anche al di fuori di ogni forma di legittimità riconoscibile e senza che si comprendano bene gli scopi che si prefissano o verso quali equilibri intendano andare. Così che diventa perfino difficile capire quando un conflitto acceso potrà essere considerato chiuso e con quali eventuali effetti di pacificazione possibili.
In questo quadro, noi che vorremmo essere partecipi in qualche modo dei destini dei popoli ci vediamo nuovamente provocati dai fatti tragici e minacciosi cui assistiamo, perché sentiamo il bisogno di farci una idea, magari rapidamente… Ma, come tante altre volte in questi ultimi anni, dovremmo avere la pazienza di informarci meglio, di capire le ragioni profonde di quel che accade, di inquadrare il contesto, di immaginarne le conseguenze, prima di passare subito al giudizio etico politico e per questa via immaginare di tranquillizzarci un po’. Come se mettere le cose a posto dal punto di vista del nostro personale giudizio morale risolvesse il problema. Dovremmo invece darci il tempo che serve, avendo l’umiltà di capire che su temi di questo genere la nostra opinione è di poca influenza e, soprattutto, che la comprensione del contesto in cui operano gli attori è un momento preliminare essenziale allo stesso giudizio etico.
In questa News Letter proponiamo, come già altre volte, alcuni interventi dalla stampa internazionale che possono aiutare a comprendere le questioni in gioco nella guerra da poco iniziata, ovviamente espressione di punti di vista diversi.
Commentarli seriamente, data la loro numerosità, sarebbe troppo lungo. Qui ci limitiamo a indicare i loro contenuti e a sottolineare alcuni spunti, affidando a voi che leggete il compito di pensarci su.

  1. Foreign Affairs, la nota e “vecchia” (Harvard, 1922) rivista americana di relazioni internazionali, pubblica un editoriale a firma di Richard Nephew dal titolo “Israele può distruggere il programma nucleare iraniano?” Quello che l’articolo ci vuole dire è che siamo in una situazione di grande incertezza previsionale: “Per anni, gli analisti hanno studiato i possibili esiti di un simile attacco, giungendo a previsioni molto diverse”. Per molti motivi ed anche perché si sa troppo poco del programma nucleare iraniano, come è apparso chiaramente in questi giorni. La domanda più importante da questo punto di vista è allora se l’attacco israeliano abbia distrutto (o distruggerà) la volontà dell’Iran di andare avanti. E se ciò lo spingerà quindi – considerata la sua debolezza sul piano bellico – ad avanzare qualche ipotesi di pace. Ma – ritiene l’autore – è ragionevole essere scettici sul fatto che l’Iran accetti un accordo a spada tratta. Il risultato più probabile è che l’Iran continui a reagire.
  2. Foreign Affairs pubblica un secondo articolo sullo stesso tema, dal titolo “La vera minaccia dell’Iran”. L’autore, che in passato è stata analista per la CIA, ha l’impressione che Israele con il suo attacco all’Iran abbia “tentato la fortuna”, senza tener conto delle possibili conseguenze peggiori della sua iniziativa. Israele potrebbe avere aperto il vaso di Pandora. Perché la risposta più probabile, e anche la più pericolosa, è che l’Iran decida di ritirarsi dai suoi impegni sul controllo degli armamenti e di costruire a questo punto seriamente armi nucleari. Ai passi cui il programma nucleare iraniano è arrivato non sarebbe facile bloccare una decisione di questo genere.
    Si potrebbe tradurre così: come già nel caso di Gaza e del Libano l’atteggiamento di Netanyahu e del suo governo sembra apparentemente dare risultati nel breve periodo, ma è improbabile che risolva i problemi di fondo nel lungo periodo.
    L’ipotesi avanzata in questo articolo è stata ripresa in Italia fin dal titolo, con formulazioni però più estreme e meno consapevoli della complessità del contesto, da Pino Arlacchi, già vicesegretario dell’ONU per il controllo delle droghe e la prevenzione del crimine.
  3. Il Guardian, quotidiano progressista del Regno Unito, ha pubblicato due articoli redazionali. Uno, firmato da un suo editorialista Jonathan Freeland – che qui non alleghiamo – è di carattere analitico e nella sostanza condivide la ipotesi avanzate da Foreign Affairs e cioè che l’attacco israeliano possa a lungo andare a aggravare la minaccia nucleare. Il secondo, dal titolo “Trump, Netanyahu e Khamenei: tre vecchi arrabbiati che potrebbero farci uccidere tutti” – che invece alleghiamo anche se ci sembra molto discutibile – è firmato da un vecchio editorialista del Guardian: Simon Tisdall. L’autore riconduce tutte le responsabilità di quanto sta accadendo ai “tre vecchietti” che governano Israele, Iran e USA. Si tratta a suo avviso di personalità disturbate e pericolose, totalmente inadatte a governare i loro paesi. È, a nostro avviso, un esempio di come, invece che provare a ricostruire le ragioni di fondo dei conflitti, si riconduce la storia al caso e le colpe alla “pazzia” dei capi e, senza che si possa capire perché lo sono diventati, perché continuino ad esserlo e perché i loro popoli li seguano, in parti non trascurabili. Questo genere di articoli serve più a compattare chi ha già formulato un suo giudizio “incazzato” e desidera solo trovare conferme, non capire.
  4. Il Washington Post ha pubblicato un intervento, in forma di Opinion, quindi non particolarmente impegnativo per la testata, dal titolo “Israele ha colto l’occasione per colpire. La parte difficile potrebbe essere chiuderla”. L’articolo manifesta dubbi circa gli esiti finali della guerra, non sembra avere le idee chiare sulla possibilità di bloccare il programma nucleare iraniano; aggiunge a quanto già visto negli articoli precedenti la preoccupazione che vi possano essere reazioni di carattere terroristico frutto della collaborazione di recente sviluppata tra l’Iran e al-Qaeda. L’autore sembra interessato ad avanzare critiche a Trump, atteggiamento su cui il Washington Post non demorde, anche dopo il noto intervento di Bezos (proprietario del giornale) volto a riallinearlo su posizioni più “collaborative”. L’articolo si conclude infatti suggerendo a Trump la necessità di chiarirsi le idee: “intende forse porre fine alla guerra fredda con l’Iran, iniziata con la rivoluzione del 1979 e il consueto slogan “Morte all’America”? O la sua promessa di impedire all’Iran di ottenere un’arma nucleare trascinerà l’America ancora più in profondità nel ciclo di attacchi e ritorsioni? Come hanno insegnato decenni sia gli Stati Uniti che Israele, i conflitti con l’Iran sono facili da iniziare e difficili da terminare”. Per inciso, anche il New York Times ha pubblicato un articolo, nella rubrica Opinion, nel quale si mettono in guardia gli USA dai rischi che comporterebbe farsi coinvolgere direttamente nella guerra.
  5. Le Monde ha pubblicato il 14 un editoriale non firmato, breve e nel complesso equilibrato. Perché non nasconde le responsabilità dell’Iran come invece tendono a fare coloro che ragionano solo in base al loro disprezzo per il governo israeliano, per quanto motivato esso sia. Mette in luce in particolare l’incapacità del regime degli Ayatollah di trarre le conclusioni necessarie del proprio indebolimento. È interessante poi perché sottolinea l’incertezza del conflitto, sia per quanto attiene ai fini (cambio di regime o blocco del programma nucleare?) sia per quanto riguarda la possibilità di raggiungere lo scopo di disinnescare il rischio atomico (sul piano bellico). A ciò l’editoriale aggiunge anche un’altra domanda di prospettiva, che a questo punto appare ragionevole porre: cosa intende fare Israele con il suo nuovo status di superpotenza militare della regione? Uno status che – va detto – è stato raggiunto perseguendo la via della forza e del disprezzo per le leggi internazionali, cosa che non sarà senza conseguenze. Si pensi alla questione delle opinioni pubbliche arabe, che sappiamo essere assai meno neutrali dei propri governi.
  6. Già il 13 giugno il New York Times pubblica un articolo dal titolo “Come pensare a ciò che sta accadendo con l’Iran e Israele”, che sembra fatto a posta per le nostre esigenze di comprensione. Il testo è di T. Friedman, uno dei più noti editorialisti americani, che – posta inizialmente la consueta premessa che nessuno sa come andrà a finire questa storia – si propone di fornire al lettore un insieme di variabili da tenere sotto controllo, di giorno in giorno, per capire cosa stia succedendo. L’articolo è particolarmente interessante per noi se si tiene presente chi è il suo autore. Friedman è profondo conoscitore del Medio Oriente, che frequenta assiduamente da decenni. Fautore da sempre di una soluzione a due stati del problema palestinese è molto critico nei confronti dell’attuale governo israeliano per quello che sta facendo a Gaza: “un disastro morale, economico e strategico” dice. Ma nello stesso tempo è molto meno critico nel valutare l’azione più ampia che Israele sta conducendo in Medio Oriente: “Una delle cose che mi ha sempre colpito di Netanyahu è la sua abilità strategica come attore nel teatro regionale e la sua incompetenza strategica come attore locale nei confronti dei palestinesi”. Questo giudizio meno critico si fonda su una valutazione -largamente condivisa dagli analisti americani e spesso rimossa qui da noi – nei confronti del regime iraniano, che si ritiene essere una minaccia reale alla sopravvivenza di Israele, uno dei principali sostenitori del terrorismo internazionale, e una sfida permanente agli equilibri mediorientali. L’ambasciatore Massolo, che se ne intende, dice il 16 giugno sul Corriere della Sera: “L’Iran non è Gaza; è la fonte stessa dell’instabilità”. Questa costatazione pare del resto utile a spiegare le reazioni all’iniziativa israeliana che lo stesso Massolo riassume così: c’è di fatto “il favore di Washington – preoccupata solo di sottolineare l’unilateralità dell’attacco israeliano – quello degli europei [n.d.r. si pensi a Macron e a Starmer] il silenzio dei sauditi e delle monarchie del golfo”.
    Va tenuto presente che lo stesso giorno in cui viene pubblicato l’articolo appena considerato il New York Times –ricordo trattarsi del principale organo di informazione “progressista” negli USA – pubblica un articolo di un suo editorialista, Bret Stephens, dal titolo inequivocabile “Israele ha avuto il coraggio di fare ciò che era necessario”. “I critici dell’attacco – dice l’autore – potrebbero almeno chiedersi se Israele avesse un’alternativa realistica contro un avversario che ha ripetutamente promesso di cancellarlo dalla mappa”. E ricorda che appena un giorno prima dell’attacco, il consiglio dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica ha dichiarato che l’Iran stava violando i suoi obblighi di non proliferazione nucleare. Non riportiamo il testo completo dell’articolo, per non esagerare con la documentazione. Qui di seguito riassumiamo però il suo argomento centrale. “I teorici accademici potrebbero essere convinti che un Iran dotato di armi nucleari contribuirebbe semplicemente a creare un equilibrio stabile contro un Israele dotato di armi nucleari. Ma questo non tiene conto della mentalità millenarista di alcuni leader teocratici iraniani, per i quali l’obiettivo ideologico di distruggere Israele potrebbe valere il prezzo di un martirio di massa in uno scambio nucleare. Ignora anche la prospettiva che una bomba nucleare iraniana porterebbe l’Arabia Saudita, e forse anche Turchia ed Egitto, a cercare di dotarsi di armi nucleari. Quanto è stabile un equilibrio del terrore se ci sono tre, quattro o cinque potenze nucleari nella regione più instabile del mondo, che operano in incerte combinazioni diplomatiche, ognuna in lotta con le altre?” Che questa argomentazione sia fondata in tutto o solo in parte essa stimola a riflettere sulla complessità della risorgente questione nucleare e su che cosa significhi oggi deterrenza.
  7. La rivista francese Grand Continent il 14 giugno ha pubblicato una intervista a Anwar Gargash, ex ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti e uno dei protagonisti degli accordi di Abramo. Si tratta di un articolo interessante perché esprime le reazioni prevalenti nel mondo sunnita all’intervento Israeliano in Iran. Chiarito che nemmeno gli Emirato Arabi sono angeli come amano sembrare – basterebbe pensare al ruolo da essi giocato nel conflitto sudanese – l’atteggiamento del diplomatico emiratino appare informato a una notevole moderazione. Certo si ribadisce più volte che un escalation militare è quello che serve di meno in questa fase in Medio Oriente, che la via diplomatica è l’unica percorribile, dato che “la forza non è sufficiente” (ma forse necessaria…?). E però si ribadisce che il programma nucleare iraniano era un pericolo per tutti, si fa intendere che è prematuro prevedere quel che succederà, che non è scontato che gli incontri per trovare un accordo non possano riprendere. E si sposta l’attenzione su Gaza: “Israele deve comprendere che il suo rapporto con il mondo arabo è strettamente legato alla prospettiva politica che offre al popolo palestinese”. Tenuto conto “dell’ovvio e cioè che il governo Netanyahu è il governo attualmente al potere in Israele, e dobbiamo fare i conti con il potere che detiene”.
    Gilles Kepel, il noto studioso del mondo arabo, su La Repubblica del 16 giugno, commenta in questo modo l’atteggiamento degli stati arabi: “Le petromonarchie del golfo hanno sofferto l’ingerenza iraniana, ma temono anche una vittoria totale di Israele. Non vogliono né una vittoria piena di Teheran, né un trionfo israeliano”
  8. Concludiamo questa rassegna con un articolo dal titolo esplicito “Non rinunciamo alla diplomazia con l’Iran”, con cui la rivista Foreign Affairs ritorna nuovamente sul conflitto chiarendo le proprie crescenti preoccupazioni e proponendosi esplicitamente di interloquire con Trump per farlo ragionare – per fortuna esistono ancora studiosi ottimisti… – su quella che a loro dire è la soluzione più conveniente per gli interessi americani. Lo spazio per una soluzione negoziale, secondo l’autore, esiste ancora. Se, invece, i combattimenti cessassero senza un accordo, Teheran potrebbe benissimo tentare di dotarsi di un’arma nucleare. E ciò potrebbe essere ritardato solo dal ricorso alle pesanti bombe americane capaci di sfondare i bunker. Ma, anche in tal caso, per garantire davvero che la minaccia sia stata ridotta, gli Stati Uniti avrebbero bisogno di una presenza sul terreno o di cicli prolungati di attacchi militari condotti con una conoscenza approfondita delle attività nucleari iraniane. Un accordo diplomatico rappresenterebbe perciò per Trump il modo migliore e più sostenibile per evitare sia un Iran nucleare sia un prolungato coinvolgimento militare. Anzi, potrebbe essere l’unico modo per scongiurare un esito inaccettabile. Proseguire, come sembra intenzionato fare il governo israeliano, puntando a un cambio di regime sarebbe molto pericoloso. Netanyahu ha prestato poca attenzione a ciò che effettivamente sostituirebbe il sistema attuale. In assenza di un’alternativa praticabile la caduta della Repubblica Islamica potrebbe trascinare il Paese in un periodo di guerra civile o portare a una dittatura militare determinata a ottenere la deterrenza nucleare. È la stessa diagnosi avanzata da Angelo Panebianco sul Corriere del 17 giugno. Foreign Affairs, sempre nell’ambizioso tentativo di far ragionare Trump, osserva che una guerra di vasta portata causerebbe inoltre un’impennata dei prezzi del petrolio, gravando ulteriormente sui consumatori americani alle prese con l’inflazione. Trump trarrà quindi beneficio da una cessazione dei combattimenti e ne subirà le conseguenze se si intensificassero. L’articolo indica poi più precisamente le, peraltro difficili, decisioni che il presidente dovrebbe prendere perché la via negoziale possa essere intrapresa. Innanzitutto convincere Israele a fermarsi, cosa non facile, senza l’uso della forza… In secondo luogo gli Stati Uniti dovrebbero offrire all’Iran un accordo nucleare ragionevole che includa un alleggerimento delle sanzioni, se ad esempio l’Iran integrasse il suo programma di arricchimento dell’uranio in un consorzio multinazionale con l’Arabia Saudita a tale scopo, come Teheran aveva espresso disponibilità a fare prima degli attacchi israeliani.
    E con questa ventata di buon senso e di ottimismo della ragione, almeno provvisoriamente ci fermiamo.
    P.S. La notte ci ha peraltro ricordato che siamo in presenza di un Presidente degli Stati Uniti il quale, dopo aver qualche giorno fa dichiarato che gli USA non sono coinvolti nel conflitto, ieri sera ha scritto sul suo social che “stiamovincendo la guerra”, poco dopo che “l’Iran deve arrendersi” e un istante successivo ha aggiunto le parole “senza condizioni”. Anticipo di un’entrata in guerra diretta degli Stati Uniti? Minaccia per costringere a sedere un Iran intimorito al tavolo delle trattative”? Ai posteri….
    17/06/2025